«Dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fior»Fabrizio De André, Via del Campo
Tutti prima o poi abbiamo bisogno di un angelo custode, di qualcuno che ci aiuti disinteressatamente, che combatta al nostro fianco contro le angherie della vita, che sia disposto a sacrificarsi per noi. E poco conta se al posto delle ali ha una bottiglia nella mano, se sotto la sua barba incolta e i suoi lunghi capelli grigi trova posto un caratteraccio, se non riuscirà mai a frenare i suoi istinti violenti né la sua dipendenza, condannato a un’eterna dannazione terrena senza apparente via d’uscita. Il suo riscatto è comunque possibile. Si nasconde nell’amore, improvvisa folgorazione che può giungere all’improvviso, anche in una corsia d’ospedale, anche durante un TSO, anche durante l’apice dell’amarezza. L’amore sulla forza del quale ricostruire la propria coscienza, consapevoli dei propri errori e forse anche della loro inevitabilità, ma finalmente di nuovo, forse per la prima volta, umani. Perché è prima di tutto una parabola morale di caduta (e ricaduta, e ricaduta) e redenzione Ovunque proteggimi, il terzo lavoro del regista sardo Bonifacio Angius presentato in anteprima nella Festa Mobile del Torino Film Festival. È un viaggio dolente, partecipe e ancestrale di due emarginati, soli o quasi al mondo, pazienti mentali ormai senza diritti, che trovano la salvezza anche dove la salvezza sembra impossibile, bloccata come l’accesso a un traghetto, come la possibilità di riottenere la patente di guida, o come quella tranquillità impossibile di chi è vittima dei propri eccessi e sa che sempre lo sarà.
Alessandro è un cantante di piazza fallito, edonista bisessuale senza più una lira e con le mani bucate, facile all’alcol e alla coca quanto gradasso con le ragazzine, abbandonato anche dal suo musicista di una vita Gavineddu e nemmeno più servito dal barista di una vita con il quale da sempre parla da solo fra il remissivo e l’aggressivo, costretto al ricovero coatto dopo aver sfogato la sua rabbia nella distruzione della casa materna. Francesca è una ragazza madre, forse mezza matta, probabilmente mezza tossica, di certo molto libertina, odiata e disconosciuta ormai anche dai suoi stessi genitori che hanno ottenuto per lei l’ordinanza restrittiva nei confronti del figlio, nel frattempo affidato dai servizi sociali a un orfanotrofio. Il loro non sarà il classico incontro che rimette tutto in discussione, non può né vuole farlo, ma è quello che, in un road movie slabbrato e polveroso di saliscendi sulle statali di Sardegna, riaccende un barlume la speranza. Quella di una madre di potersi ricostruire una nuova vita con il figlioletto a Barcellona, dove nessuno la conosce, e quella di un cantante squattrinato, alcoolizzato e fallito di poter lottare almeno una volta per qualcosa di giusto, per una vita nuova, per un cambiamento personale. Anche a costo di sacrificarsi, di dare circolarità alla narrazione tornando nuovamente un folle pericoloso agli occhi della legge ma questa volta per una nobile motivazione, mentre grazie ai suoi diversivi – e poco importa che questi richiedano una leggera sospensione dell’incredulità, con un posto di blocco della polizia particolarmente facile da ingannare – l’auto con madre e figlio elude i controlli e raggiunge indisturbata la stiva della nave in partenza.
C’è il sogno di una nuova vita in Spagna, c’è l’indirizzo di un figlio da raggiungere e vedere almeno qualche minuto, c’è casa di Gavino, un po’ amico e un po’ traditore, al quale chiedere la macchina, ma il viaggio di Alessandro e Francesca forse non ha una propria meta, quello che conta è spostarsi, fuggire in continuazione a se stessi e alla propria triste realtà, sempre alla ricerca di un nuovo luogo un nuovo luogo nel quale illudersi ancora per un po’. Dopo i santi da omaggiare di SaGràscia e i rapporti familiari di Perfidia, Bonifacio Angius mette ancora una volta al centro della sua narrazione la Sardegna, con la sua luce naturale, con le sue costruzioni in pietra, con le sue feste popolari, con le sue tradizioni, con le sue curve inaspettate a picco sulla scogliera e con i suoi immancabili sugheri scuoiati a bordo strada. Una Sardegna di paesini e di città, di chiese e di piazze, di campagne e di porti, in cui le anime perse di questo atipico road movie melodrammatico appaiono e scompaiono nel loro eterno e inarrestabile vagare, sperdute, eternamente destinate a non trovare pace nella prossima ordinanza del tribunale, o nel prossimo Negroni trangugiato di fronte al videopoker mentre cambia lo sguardo, facendosi via via più sudaticcio e meno lucido. Fino a quando dal cassone del pick up non spunta inaspettato un bambino, e il voler vedere un figlio diventa un rapimento d’amore, lontani dalla legge dei tribunali per seguire quella del cuore, quella del sorriso di un innocente, già orfano di padre, finalmente felice insieme alla sua mamma.
E sembra quindi strano che in un film così ricco di simboli e poetica, in cui ogni attore ha conservato il suo nome e in cui mai si spegne il barlume in fondo al tunnel, ci sia una così evidente dicotomia nel livello dei dialoghi, ora straordinariamente cesellati nei litigi pieni di veleno e nelle crudeli derive psicotiche e ossessive dei protagonisti, nell’ignoranza di Francesca suggerita attraverso una frecciata all’attuale politica del “cambiamento” o nel trattare le fasi violente dell’ubriachezza con i monologhi deliranti di Alessandro di fronte al barista, e ora inspiegabilmente scolastici e sbrigativi – su tutte la sequenza del colloquio del protagonista con lo psichiatra dopo il ricovero coatto, incanalata sin da subito su sentieri di inaspettate banalità e retorica che quasi stridono con la cura di quasi tutto il resto della sceneggiatura. Ma si tratta di istanti isolati, di piccole sbavature, di leggeri sbandamenti che non fanno scartare Ovunque proteggimi dalla sua strada maestra. Una strada profondamente umana, sincera, che ama profondamente i suoi protagonisti meravigliosamente fotografati con avvolgenti movimenti di macchina in giro per l’isola che ha dato loro i natali e che non può esimersi dal donare un futuro diverso alla loro emarginazione, perdonandoli e facendoli rialzare dopo ogni caduta, permettendo loro un riscatto anche quando nessuno, né la società, né i tribunali, né le loro debolezze, né i loro vizi, credono ancora sia possibile.
Come in una ballata di Fabrizio De André, Angius si schiera apertamente a fianco degli ultimi, punta i fari sulla loro umana dignità, sui loro sentimenti, sulla loro psicologia, sulla loro piena coscienza morale. Perché di una piena coscienza morale si tratta. Basta evitare di cedere ai facili moralismi, basta imparare a comprendere e a perdonare, basta capire che anche rubare quando si ha fame (o la voglia di un bambino di giocare) può non essere necessariamente un peccato, e che anche il sequestro di persona, quando serve a riprendersi un palco e, dal palco, ritrovare chi ha bisogno di aiuto, non è poi un atto così orrendo. A Francesca non basta la razionalità di Alessandro, non le basta la sua proposta di matrimonio, lavoro e famiglia normale con cui riottenere anche legalmente il bambino. Vuole averlo con lei sempre, da subito, senza restituirlo ad alcun orfanotrofio. All’apice della sua follia, o forse della sua lucidità, di sicuro del suo amore. E di quello di Alessandro, eroe per caso che si pone al suo fianco, angelo custode imperfetto, nervoso, impaurito di fronte a ogni macchina della polizia e incapace di stare lontano dalle birre e dai whiskey, ma finalmente capace di dare un senso alla sua vita. A Barcellona o in Sardegna, con madre e figlio o da solo, ormai poco importa. Conta che loro ce la facciano, che abbiano la loro occasione. A costo di farsi arrestare pur di vederli salpare verso il futuro, sulla rotta di una nuova speranza.
Marco Romagna