OUTRAGE CODA (2017), di Takeshi Kitano
“Sebbene questo sia l’ultimo capitolo della serie, vedo che ciascun film della trilogia ha il proprio colore. Pertanto, Outrage Coda è un’opera a sé stante. Con questo film non voglio affermare la violenza, quanto piuttosto far sentire il vuoto e la tristezza che vi stanno dietro”
Takeshi Kitano
C’era una volta Otomo, ma Beat Takeshi c’è ancora. Siamo nel 2010 quando Kitano torna, anche abbastanza a sorpresa, allo yakuza movie. Perchè Outrage (dal sottotitolo inglese “a survival game”) senza dubbio lo è, ma già sembra nascondere molto altro. Soprattutto nella figura di Otomo (interpretato dallo stesso Takeshi), delinquente di lungo corso ma di corta carriera, a cui viene destinato soltanto il lavoro più sporco, mentre i giovani si combattono il potere dei clan negli uffici dell’alta finanza. Otomo non è al passo coi tempi, è fedele ai riti ed all’orgoglio degli yakuza di una volta e non pensa al denaro, quasi come fosse destinato a quel tipo di vita perché null’altro è in grado di fare, null’altro conosce. Però, quando il suo boss gli ordina di creare scompiglio tra le famiglie rivali della sua città, diventa l’uomo più indicato alla guerriglia, innescando un’inevitabile spirale di vendette, una pericolosa dialettica del sangue e del massacro, a cui non si oppone in alcun modo, ma anzi la fomenta. Otomo ha le sue leggi, le sue visioni, il suo onore. La situazione degenererà e sarà lui a doversi salvare, in attesa di un ritorno. Il secondo capitolo (Outrage Beyond, del 2012) vede un Otomo, miracolosamente sopravvissuto, ancora più ai margini del clan a cui dovrebbe appartenere (i Sanno). In seguito all’avvicendamento al vertice dell’associazione criminale, il nostro eroe è sempre più un cane sciolto. Solo il ritorno in campo dell’amico e alleato Kimura porterà Otomo sulla strada della vendetta, in una caccia folle e insensata che lo vedrà ritrovare tutti i suoi carnefici (splendida la scena dell’omicidio attraverso una macchina spara-palle). Adesso sono passati altri cinque anni, e Otomo oramai è fuori dal giro, lontano dalle faide, ancora più fantasmatico. Ma il finale non è ancora scritto, basterà una chiamata per farlo tornare in campo per un’ultima, straordinaria, volta. Sarà lo stesso Kitano ad affermare che questo Outrage Coda non guarda alla violenza, quanto piuttosto a far sentire il vuoto e la tristezza che vi stanno dietro. E il nostro Otomo forse è l’unico che pare saperlo.
Il film si apre con Otomo in spiaggia, a pescare. Siamo in Corea, lontano dal suo vecchio terreno di caccia. Lui è un miracolato delle guerre di clan, ma il suo nuovo capo si immischia, per uno sgarro di poco conto tra un suo fedele e due prostitute, in una nuova faida proprio contro la famiglia contro cui Otomo si è già fatto valere. Le nuove guerre di finanza e di potere, da cui si tiene debitamente a distanza, coinvogono però anche la sicurezza del padrone, e Otomo è costretto a tornare nel paese del Sol Levante per un’ultima resa dei conti. Otomo/Takeshi è ormai stanco e confuso, il suo volto è sempre più scavato di solchi e di rughe, il suo corpo è quasi impacciato e caracollante, le sue mani appaiono tremanti. Così il film procede senza particolari climax, con poche armi, con pochi colpi di scena, con poche sparatorie, ma con molte riunioni nei salotti buoni, molte parole e molti scontri. Il poco spettacolo è spesso relegato fuori campo, così come la violenza: quando si esibisce, nell’unica sparatoria all’interno di una festa, è però frontale come non mai, quasi rigoroso. Otomo è così il cortocircuito, il personaggio che sconvolge la dialettica, il controcampo che sfida le nuove leggi della mancanza di azione. È una figura fuori dal tempo e dallo spazio, che pare guardarsi allo specchio del proprio passato, quello fatto di un destino ineluttabile, di una missione da compiere, di un sacrificio di passione: il suicidio, appunto, un seppuku anonimo, dopo l’ultimo omicidio a cui pare essere renitente, quasi scusandosi con la vittima. Un’epoca si chiude, perché in Outrage non solo c’è il cinema di Kitano condensato e terribilmente umanizzato, ma c’è la sua personalità, il suo coraggio, la sua malinconia.
Il film si chiude con gli amici di Otomo in spiaggia a pescare, quasi come se aspettassero Beat Takeshi nell’aldilà dopo che già è sceso il nero, dopo che già scorrono i titoli di coda, dopo che già le persone abbandonano la sala. Otomo non c’è e non ci sarà più, questa volta per sempre. Si era reso conto di quanto potesse essere vano lottare contro la propria sorte, con la saggezza consumata dalla solitudine di chi non aveva ormai né taglia e né banda, con la definitiva presa di coscienza di un cinema che non vede nemmeno più il proprio presente. Il film si prolunga nel tempo senza mai lasciare un’intensità particolare, cancellando la coscienza come la presenza di tutti i protagonisti che paiono accompagnare lo stesso Otomo per la sua ultima recita, ed emerge un sentimento di distanza inesplicabile, una mancanza dagli orizzonti sconfinati quanto il mare in cui si riflettono ancora i compagni di pesca del nostro (anti)eroe. Quello di Outrage Coda, chiusura della 74ma Mostra di Venezia, è un finale sublime, struggente e dolorosissimo. Kitano, genio dall’inventiva difficilmente raggiungibile da altri autori nella contemporaneità, ribalta ancora una volta la prospettiva, destruttura la morte dei codici e del genere, ne orchestra una splendida e malinconica ridiscussione, non solo dello yakuza eika ma di tutto il cinema possibile, del senso più vivo della spettacolarizzazione e della verosimiglianza, del movimento e del montaggio, addirittura dell’uso dei corpi. Le citazioni, dallo sparo di Sonatine alla sepoltura di Furyo, passando per una famiglia che non certo per caso si chiama Hanabi(shi), sono calde e lucide, cesellate da un’autoironia che lascia spazio a una tristezza assoluta e radente, cosparsa di piccoli segni e di grandi simboli che ribaltano lo stesso senso della sensibilità. Per assurdo, la violenza di Otomo è più comprensiva ed espressiva, drammaticamente umana, rispetto alla freddezza ciclica dell’oggi, della teoria, della rappresentazione stessa. “Beat” Takeshi Kitano non accetta di essere ucciso sullo schermo, ma deve scegliere da solo la propria fine, la distruzione della propria immagine in un primissimo piano. Ma questa è, dunque, la fine di Beat Takeshi? Probabilmente no, e nemmeno di Otomo. Si dice che Kitano stia già pensando a un film d’amore, di sentimenti, di dolcezza. Nessuno lo può sapere, ma senza dubbio nella prossima figurina di Takeshi ci sarà anche uno sguardo, un sorriso, un respiro del nostro vecchio yakuza fuori moda. Perché ogni personaggio si fonde per creare una geografia umana unica e sfaccettata (viene in mente l’immenso e inarrivabile ciclo dedicato a Tora-San da Yamada), essenzialmente legata alla ricerca di se stessa, dei propri limiti e del proprio spazio, che si crea al di là dello schermo come della macchina da presa. È il manichino (di se stesso) che Kitano stesso porta in spalla su quel ponte infinito di Glory to the Filmmaker!, è il suo sogno di creare un film che possa contenere tutti gli altri come nessuno, che possa attraversare tutta la civiltà possibile, etica ed estetica, dello sguardo e del cuore. Il senso dell’attesa, magari su un altro mare come su un altra spiaggia. Otomo è morto, viva Otomo!
Erik Negro