Presentato all’interno della sezione Onde del Torino Film Festival 2016, Out There di Takehiro Ito è un progetto audiovisivo all’apparenza imperscrutabile e diseguale, ma con una coerenza di fondo che travalica probabilmente le intenzioni degli stessi giovani autori, un collante emotivo che tiene miracolosamente in equilibrio le varie parti di un’opera sincera e ambiziosa al contempo, difficilmente categorizzabile nel suo essere un ibrido tra finzione e documentario (caratteristica di quasi tutte le opere di questa sezione, tra le più interessanti della rassegna torinese), dove la differenziazione tra colore e bianco&nero sembra scomporre rigidamente in blocchi la (non) narrazione, per poi risparigliare ancora le carte e farci perdere ogni punto di riferimento. Ecco, brevemente, la sinossi fornita dalla produzione: il regista Haruo è tornato a Tokyo e sta facendo il casting per proseguire le riprese di un film in parte già girato a Taiwan e dedicato a una coppia locale che negli anni Settanta decide di emigrare negli Stati Uniti. Durante le audizioni, Haruo incontra il giovane taiwanese, e Ma riconosce nel ragazzo la stessa alienazione geografica e identitaria che lo attanaglia da sempre. Colpito dallo spaesamento esistenziale di Ma, decide allora di trasformare il suo sentimento nel tema centrale del film.
Importante, in questo caso, dare uno sguardo alla sinossi “ufficiale”, perché ci indica il canovaccio di partenza e le effettive intenzioni. Ma basta un incontro per cambiare la storia di un film, per spostare la traiettoria emotiva ed esistenziale di un’opera prima che pian piano perde i contorni definiti e s’ingigantisce, si universalizza, scava nell’animo del suo protagonista principale fino a mettere a nudo pensieri e psicologie sconosciuti in primis a lui stesso. Nel colloquio/casting che il regista della finzione, l’attore Haruo Kobayashi, intraprende con il giovane Ma Chun Chih, le domande vanno sempre più in profondità, indagano e fanno luce su rimossi sensi di inadeguatezza, si trasformano presto in una seduta psicanalitica. Parallelamente, nel tempo filmico, vediamo Ma esercitarsi in maniera ossessiva e minuziosa con i suoi pattini in linea, provare trick, rialzarsi dopo una caduta. E, ancora, il suo incontro con una ragazza, timide passeggiate, un delicato ritratto fotografico che nulla ha a che vedere con l’overdose di immagini dell’era di Instagram e Facebook, un ritratto appunto, una posa classica, destinata già in partenza al ricordo perenne, alla malinconia lacerante.
Questi tre piani sono fotografati in b&n che, così ci sembra almeno nel primo dei due lunghi capitoli che frazionano l’opera, è il (non) colore della finzione. Perché poi, a un certo punto, Ma sembra abbandonare il progetto per tornare nella natìa Taiwan, per sottoporre i familiari a lunghe interviste che si trasformano in una slavina di ricordi che, come sempre accade, ci portano all’interno dei rivolgimenti di un Paese intero attraverso le storie personali dei suoi “piccoli” cittadini, e questa sezione diventa a colori. I continui andirivieni tra i due piani scompaginano ogni coordinata, a rappresentare una felice consonanza stilistica tra tono della narrazione e stile della messa in scena, e noi spettatori veniamo avviluppati nel gorgo di questo flusso di coscienza in maniera mesmericamente ipnotica, non ci poniamo quasi più domande, partecipi e solidali dei “normali” accadimenti di una vita come tante e, come tutte, assolutamente unica e preziosa. Ci sembra quasi di poter anticipare le risposte di Ma (l’intervista/casting torna sempre a intervalli regolari, fino alla fine) e poche volte un personaggio sullo schermo ci è sembrato così prossimo, vicino, amico.
Out There può risultare affascinante o irritante al contempo, è una visione complessa e stratificata che può conquistare o annoiare a morte (ed è successo anche qui al Festival, con più di metà della sala uscita durante la proiezione) ma, se gli viene concesso il tempo che merita, ripaga e rimane scolpito nella mente. Qualche parola sullo stile registico di Takehiro Ito, esordiente di cui aspettiamo con molta curiosità l’opera seconda: dalla camera indagatoria e concentrata spesso sui piani d’ascolto delle “interviste”, ai campi medi che seguono le evoluzioni sui rollerblade, ai curati quadri compositivi degli scorci cittadini, il regista tradisce la sua impostazione “scolastica” (laurea in “Film e New Media” alla Tokyo University) ma illustra senza svolazzi e si mette al servizio dello zibaldone emotivo e del magma esistenziale che pian piano è uscito fuori da, lo ripetiamo ancora una volta, un semplice incontro. Un cinema così libero e totalmente svincolato da imposizioni, intriso di umanesimo e contiguità emotiva, rappresenta una salutare boccata d’ossigeno, tanto da immaginarcelo ancora come un progetto “aperto”, al quale aggiungere esperienze, amori, inevitabili cadute. Ma, nella vita come sui rollerblade, l’importante è rialzarsi e riprovare, ancora, ancora e ancora. L’immagine di una donna eterea, che attende, alla finestra, è l’ultimo mistero del film: sogno, ricordo, precognizione, realtà. Durante la visione di Out There scorrono tutti e quattro in continuo andirivieni. E pazienza se forse, come Icaro, si rischia di atterrare fragorosamente al suolo per tentare di volare troppo in alto.
Donato D’Elia