OUT OF THE BLUE (1980), di Dennis Hopper
Benché girato nei paesaggi del Canada più occidentale, compresa Vancouver, Out of the Blue (1980) di Dennis Hopper assume i tratti del prodotto ultimativo di una cultura americana che si richiude su se stessa, sancendo la propria disfatta. Il film ebbe un destino singolare, dal momento che appare in tutto coerente col percorso autoriale dell’attore-regista anche se costui si assunse l’impegno della regia in un secondo momento (inizialmente doveva solo interpretarlo), riscrivendo in parte la sceneggiatura e cercando nuove location. È singolare anche il destino del titolo, che alternò al più noto Out of the Blue la versione per il mercato canadese (No Looking Back) e quella più bislacca, ovviamente apparsa per la distribuzione italiana, di Snack bar blues, talmente ridicola da rasentare il fraintendimento. D’altra parte il cinema di Hopper regista è sempre stato condannato alla dispersione e frammentarietà; dopo il folgorante esordio di Easy Rider, nei successivi dieci anni Hopper realizzò solo due lungometraggi. Soltanto dalla metà degli anni Ottanta, con il suo ritorno in pianta stabile anche in veste d’attore e con la buona accoglienza rivolta alla sua quarta regia Colors (1988), Hopper si reimpose in qualche modo al pubblico internazionale. Di certo, specie fino a Out of the Blue, non si tratta di un cinema mirato al grande pubblico, né disposto a scendere a compromessi: il suo destino è quello della storia del cinema parallela alla “storia ufficiale” dell’industria, che si svolge con tempistiche di ricezione ben diverse dall’automatica assunzione in memoria culturale dei classici prodotti dallo show business. È un cinema, insomma, che s’impone alla storia secondo percorsi tortuosi, e che può trovare proprio nei festival una via alla riproposizione e alla visibilità (e in questo, la sezione “Amerikana” curata da Asia Argento al TFF 2017 si sta rivelando uno scrigno di reperti preziosi, vedi anche l’ottimo Payday, 1973, di Daryl Duke).
Se nel 1969 l’opera prima Easy Rider si era guadagnata l’alloro di manifesto generazionale, d’altra parte già in quell’esordio Dennis Hopper ci parlava di un’utopia nata morta sullo scontro tra ideale e realtà, altare sacrificale sul quale sembra infrangersi tragicamente qualsiasi sogno di libertà. La repressione del sistema è più forte, ma nell’utopia stessa si producono i germi della propria autodistruzione. In tale direzione Out of the Blue, ben al di là di una proiezione in DVD ai limiti dell’improbabile per – si dice – sopraggiunti problemi sulla dichiarata copia 35mm, pare configurarsi come lo specchio scuro, l’anima nera di quell’utopia perduta. Attraversando gli anni Settanta, l’ideale ha conosciuto sulla propria pelle la violenza della repressione, la progressiva marginalizzazione delle idee, il confinarsi dei sogni verso le periferie più sperdute di una geografia antropologica liminare. A incanalarsi verso la distruzione non vi è soltanto un’utopia generazionale, ma forse in modo ancor più significativo il sogno di una nazione, Terra d’Abbondanza per tutti. È sparito, soprattutto, lo spirito originario dei cowboys, trasformati più o meno in mostri. Come del resto è un moderno cowboy “sfigurato” il padre di Out of the Blue, Don Barnes, finito in carcere per aver travolto uno scuolabus alla guida di un camion in compagnia della figlia Cindy, da tutti chiamata Cebe. Vicino a essere rimesso in libertà, Don tenta di reinserirsi in società facendo la “cosa giusta”, ma resta comunque insofferente alla vita preordinata. Partendo dal profilo di un cowboy anarcoide, a poco a poco Don Barnes rivela il suo volto mostruoso, fatto di egoismo e sopraffazione. Del resto, il panorama che si dispiega intorno a lui non è migliore, dalla moglie tossicomane agli amici ed ex-amici.
Sulla base di una saggia costruzione narrativa, Out of the Blue esordisce sulle note di una libertaria commedia drammatica di periferia (i diner, i cappelli texani, il ricorrente commento musicale intradiegetico…) per trasformarsi a poco a poco in un incubo a occhi aperti. Al centro, si erge la figura di Cebe, ragazzina in lutto per la morte di Elvis Presley, in lotta col mondo e le istituzioni. A esplodere sotto i colpi degli umori aggressivi di Dennis Hopper è innanzitutto la famiglia, struttura portante di un modello sociale tutto americano che rivela il suo volto deturpato. Se sulle prime il dramma ci cattura e ci spinge a empatizzare con una famiglia segnata da una fatale tragedia, così come i personaggi ci conquistano per la loro propensione a vivere fuori dalla convenzione, successivamente subentra la distanza provocata dalla scelta dei personaggi. L’orizzonte si fa sempre più violento, e non si tratta più di sciagure piovute dall’alto, ma di precise scelte e responsabilità dei personaggi, soprattutto delle due figure genitoriali. In fin dei conti, quella cultura provinciale spontaneamente libertaria e anarcoide non riesce poi a innalzarsi più di tanto dalla retriva morale comune. Significativa, in tal senso, è la preoccupazione tutta benpensante della madre Kathy sull’orientamento sessuale di Cebe; in mezzo a un panorama esistenziale così desolante e sgretolato, l’unica vera angoscia di Kathy è che sua figlia possa essere lesbica.
Profondamente pessimista, Dennis Hopper ci racconta insomma il fallimento di una nazione e dei suoi fondamenti, rintracciando una rocciosa cristallizzazione di un’unica morale anche laddove si esibiscono i tratti esteriori di una posticcia morale diversa. Gentrificazione etica, si direbbe. Dall’anarchia imborghesita alla violenza, non vi è che un passo: l’ultima stazione è una nazione che uccide se stessa e le sue origini (il parricidio finale sta lì a indicarlo), dopo essersi tradotta in fonte di sopraffazione sulla propria discendenza. Sotto questa luce il percorso di Cebe, donna con il rossetto e bambina che dorme con il pollicione in bocca abbracciando l’orsacchiotto, si profila come una paradigmatica perdita dell’innocenza nello scontro con la realtà. Cebe rimane in cerca di un proprio profilo, in buona parte radicato in quella cultura libertaria in cui trova congenialità. Precocemente convinta dall’esperienza che le istituzioni non svolgano la loro funzione di “aiutare le persone”, Cebe si dibatte in mezzo ai resti di un popolo, di un’idea, di una nazione, trasformati in residui mostruosi marginalizzati in una periferia geografica, specchio diretto di una periferia dell’anima. Non vi è più nulla da rimpiangere, per Hopper, neanche di quel contenitore falsamente prezioso che è la cultura periferica e popolare. In quella semplice constatazione nei banchi di scuola di fronte alla mancata risposta delle istituzioni (arrivata in ritardo, Cebe confessa di aver dormito troppo, e viene soltanto punita senza alcun atto di comprensione nei suoi confronti), Out of the Blue testa una volta di più la distruzione di una comunità originaria, la continua proliferazione di forme di potere in cui esiste soltanto domanda e risposta, causa ed effetto, azione e reazione, trasgressione e punizione.
Out of the Blue costeggia tali riflessioni tenendosi lontano dal racconto didatticamente sociale. Quella di Hopper è un’amara ballata tra i resti di strutture esplose, condotta sulle note di una colonna musicale che, partendo da Neil Young (dal quale discende pure il titolo del film), alterna punk, blues e rock. Forme musicali testimoni a loro volta di liberazione emotiva, individuale o collettiva, una via ancora possibile per l’individuo. Ma, quale che sia la strada sulla quale Cebe tenta la fuga, ci sarà sempre un ostacolo, una disillusione, un ritorno al punto di partenza, all’amarezza, al labirinto umano e sociale di un Sogno americano che ormai è cicatrice, ricordo magari doloroso, rimpianto, e poi inevitabile esplosione. Cebe si immola, come una santa, come una martire sull’altare della disperazione, trascinando nel suo giogo, o forse alla salvezza, chi le sta intorno e costantemente la abbandona. L’aspetto generale del film rimane assai affine agli umori della New Hollywood, quella “primigenia” e scarruffata, in via di sparizione negli anni in cui Out of the Blue viene realizzato. Implicitamente, insieme a un’idea di nazione sparisce quindi anche un cinema che sperava a sua volta in una propria revisione in chiave libertaria. Un requiem, intonato in più direzioni, a seppellire quel che resta di ciò che un tempo si sognò. Forse, proprio in questa delusione si possono rintracciare le ragioni delle successive sorprendenti simpatie politiche di Dennis Hopper, che riconobbe di aver sostenuto il Partito Repubblicano dall’elezione di Ronald Reagan in poi. Out of the Blue vide la luce nel 1980. Reagan inizia il suo primo mandato il 20 gennaio 1981. E i titoli di coda, in tutti e due i casi, quasi come fossero controcampi di Easy Rider, hanno sempre finito per scorrere sulle fiamme.
Massimiliano Schiavoni