“Il governo degli operai e dei contadini, sorto dalla rivoluzione del 24 e del 25 ottobre e che si appoggia sui Soviet dei delegati degli operai, dei soldati e dei contadini, propone a tutti i popoli belligeranti e ai loro governi di cominciare immediatamente le trattative per una pace giusta e democratica. Il governo intende per pace giusta e democratica la pace immediata senza annessioni, cioè senza conquista di territori stranieri, senza annessioni forzate di altre nazionalità, e senza contribuzioni“.
Vladimir Ulianov “Lenin”, dal Proclama ai popoli e ai governi di tutti i paesi belligeranti, 26 ottobre 1917 ВСЯ ВЛАСТЬ СОВЕТАМ!
Ottobre, ovvero i dieci giorni che sconvolsero il mondo. Teorie, pensieri e parole. Passioni, cronache e lotte. Oblii, malinconie e distanze.
1) L’Attrazione dell’Immagine.
Quale e cos’era l’immagine in terra sovietica a cavallo della Rivoluzione? Senza dubbio un cinema c’era già, basti pensare alle straordinarie opere di Yevgeni Bauer (morto proprio nel ’17) a quelle di Mejerchol’d o di autori come Protazanov o Gardin, ancora attivi al tempo dei Soviet. La filmografia russa muta di quel periodo poco aveva da invidiare a quella americana o europea, per cura formale, qualità estetica e contenuti narrativi, ma spesso a livello morale si distanziava assai dalla massa operaia e contadina coinvolta nella Rivoluzione. La presa del potere da parte dei bolscevichi segnò una straordinaria cesura a livello storico e allo stesso modo sul piano artistico. Le avanguardie (dall’astrattismo al suprematismo, passando attraverso il formalismo) rappresentarono un laboratorio di sperimentazione linguistica fondamentale per una nuova comunicazione, e allo stesso tempo parsero congeniali a Lenin per educare le masse spesso con grandi lacune di alfabetizzazione. Da una parte la rivista Lef di Majakovskij e dall’altra la FEKS (fabbrica dell’attore eccentrico) di Sklovskij erano palestre per nuovi autori e creativi vogliosi di dare il proprio apporto al nuovo corso sovietico. Venne anche il tempo dei primi cinegiornali (Kino-pravda) di Vertov e degli splendidi lavori d’archivio della regista e montatrice Esfir Shub. In questo particolarissimo e fecondo humus, tra anni ’10 e ’20, si impone la figura di Lev Kulešov. Sarà lui con il suo “effetto” (lo studio del legame logico tra due inquadrature che si succedono senza avere un legame diretto, creandone un’immagine altra mentale ed esterna a quelle viste) a gettare le basi di tutto quello che sarà lo studio sovietico sul montaggio. Tra i suoi allievi inizialmente c’era anche Sergej M. Ejzenstejn, lettone di nascita, interessato al teatro come al cinema. Ben presto però Ejzenstejn prenderà le distanze dalle teorie di Kulešov; laddove il maestro risolveva l’approccio linguistico-figurativo del film nella percezione cognitiva dello spettatore attraverso una costruzione lineare, l’allievo vede l’inquadratura come una “cellula di montaggio” aggressiva, destabilizzante e soprattutto conflittuale. Ancora maggiori sono le distanze che il giovane di Riga intende prendere dal cinema capitalista americano della verosimiglianza, agiato e conciliante. Più che mai interessanti sono gli studi di Gilles Deleuze a riguardo, da cui anche noi partiremo. Ejzenstejn, pur riconoscente all’opera di Griffith riguardo il montaggio, ne critica aspramente l’entità di fenomeno indipendente delle parti messe in campo (il rapporto tra duali individuali, non tenendo in considerazione la massa), ovvero – per semplificare – il non considerare l’idea che ricchi e poveri siano entrambi espressione dello stesso sistema sociale. La visione borghese della storia che ha il cinema americano non è dunque legata soltanto alla narrazione ma, cosa ben più importante, al linguaggio e nello specifico al montaggio. Sarà lo stesso Ejzenstejn in “Film Form – Essays in Film Theory” a parlare del concetto di organicità (anche dell’immagine-movimento di origine griffithiana, a cui lui stesso giunge a conoscenza solo dopo la Potemkin), e di come essa vada intesa come cellula (unità di produzione, multipla e divisibile) creatrice di ulteriori immagini opponibili e non associabili con il semplice montaggio parallelo, che nella concezione come nella pratica può solo rimandare alla società borghese. Anche attraverso una specie di risoluzione a questa organicità legata essenzialmente alle sezione aurea si può affermare, come sottolinea sempre Deleuze, che “il montaggio di opposizione si sostituisce al montaggio parallelo, sotto la legge dialettica dell’Uno che si divide per formare la nuova unità più elevata”. Sempre legato alla figura dell’organico, o almeno contrapposto, emerge il ruolo del patetico, ovvero di ciò che dalla genesi porta allo sviluppo, dell’attrazione pura nei confronti della conoscenza, e quindi del climax. Proprio qui sta il montaggio delle attrazioni (o balzante, o verticale, poco cambia), nel rapporto conflittuale e associativo continuo tra organico e patetico, “nell’aspirazione dialettica dell’immagine a raggiungere nuove dimensioni, a saltare formalmente da una potenza all’altra”. Questa teoria, o almeno la definizione di “attrazione”, secondo Ejzenstejn era mutuata dal teatro (in particolare dalla sua precedente esperienza alla FEKS), e fu definita come “momento aggressivo in grado di sottoporre lo spettatore a un azione sensoriale e psicologica […] condizionando la possibilità di percepire l’aspetto ideologico dello spettacolo”. Per poi proseguire, ribadendo questa autonomia primaria dell’attrazione, interessandosi al “concatenarsi di associazioni legate a questo fenomeno e dalla combinazione di reazioni emozionali dello spettatore”. Per questo montaggio, dunque, non basta l’atto tecnico del legare immagini, ma serve creare nuove immagini, ridiscuterne piani come inquadrature, trovare quelle capace di elevar(si) in potenza – per condensare, come sostiene Pietro Montani: l’opera d’arte sarà “organica” quando saprà riprodurre con mezzi formali il processo di crescita e di trasformazione che caratterizza gli organismi viventi, e questo è proprio solo dello specifico filmico. Stesso discorso vale per quanto riguarda il tempo, figlio di questa composizione organica in cui l’intervallo e il tutto hanno lo stesso peso specifico, che assume un nuovo senso, in cui gli eventi e gli atti sprofondano nella durata. Sarà tutta una questione di dialettica e di rapporti dunque, per Pudovkin la presa di una coscienza prolungata fino al diventare attiva, per Dovzenko l’unità delle parti nella fusione informe di profondità ed estensione. Ai limiti di questo materialismo storico agiva ancora Vertov con il suo cine-occhio, il più estremo e astratto, dalla dialettica personalissima quanto distante da quella organico/patetica; sarà lo stesso Ejzenstejn a riconoscere la straordinarietà del metodo di Denis Kaufman (così come lo riconoscerà Kazimir Malevic, pensando che il lavoro del secondo fosse addirittura l’evoluzione di quello del primo) ma solo per un uomo completamente sviluppato (“Non è un cine-occhio di cui abbiamo bisogno, ma un cine-pugno. Il cinema sovietico deve spaccare i crani e non soltanto riunire degli occhi”). Ecco – molto in breve – l’immagine della Rivoluzione, nuova, terribilmente nuova e ancor più complessa nella sua teoria.
2) Ottobre e le sue Rivoluzioni.
Sin dall’esordio al lungometraggio con Sciopero! (Stacka, 1924), Ejzenstejn pratica e sperimenta le proprie teorie. Seppur abbozzate nello sviluppo e nel vorticoso incedere della pellicola emergono visioni dalla lucidità e dalla potenza raggelanti (basti pensare al parallelo stretto tra i buoi sgozzati – stralcio di realtà – e operai massacrati – fine messa in scena – che sposta magneticamente l’attenzione dello spettatore da un crinale all’altro del dramma). Sul secondo film La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1925) ci sarebbe poco da aggiungere, considerando che scene come quella della scalinata di Odessa sono ormai di dominio e sguardo pubblico da molti anni, grazie anche alla parodia-omaggio di Villaggio e del suo (secondo tragico) Fantozzi; Ejzenstejn smussa lievemente l’astrattismo formale dell’esordio, costruisce la sua opera in cinque atti puntando su una drammaticità più narrativa nella sua dilatazione e sulla sublime fotografia di Tissè fusa con le musiche di Sostakovic, colpisce le grandi masse come la stretta cerchia intellettuale grazie a un estetica abbagliante, più funzionale alla comprensione cognitiva rispetto che allo shock. Due anni dopo però, con Ottobre (Oktjabr’, 1927-8), l’autore e teorico torna alla sperimentazione più pura, giungendo alla summa di una delle esperienze più straordinarie della storia del cinema per complessità, ricercatezza e profondità (e lo sarebbe stato anche probabilmente il successivo Staroe i Novoe – Il vecchio e il nuovo o La Linea generale, 1926-1929 – senza tutte le peripezie che lo hanno attraversato e che lo hanno comunque intaccato solo parzialmente, lasciandone un’altra opera imprescindibile). La lavorazione di Oktjabr’ fu senza dubbio meno complessa e lunga del film precedente, quasi dovesse fungere soltanto da film celebrativo ufficiale per il decennale della presa del Palazzo d’Inverno. L’apertura è a Pietroburgo, nel Febbraio ’17, quando al regno dello Zar si sostituisce il governo provvisorio e borghese di Kerenskij, lasciando il proletariato padrone solo di falci e fucili, senza soldi, senza cibo, senza un tetto sotto cui scaldarsi. Rimane la speranza, raffigurata dalla figura fiera di Lenin, tornato in aprile alla stazione Finlandia e pronto ad inaugurare un’altra stagione di lotta. Dopo l’esilio, il Compagno Ulianov prende le redini dell’armata popolare che sfida le truppe governative del generale Kornilov. La città fatica a cadere, ma a fine Ottobre (nel nostro calendario 7 e 8 novembre) l’assedio finale costringerà alla resa le forze controrivoluzionarie della città, e la presa del Palazzo diviene il giorno in cui la Rivoluzione tanto sognata diventa reale. Quasi come se fosse una descrizione documentaristica della doppia crisi di governo che ha portato il potere ai Soviet, Ejzenstejn sviluppa uno straordinario discorso intellettuale attraverso l’uso di metafore e didascalie. Interrogando le figure/forme che ci troviamo di fronte (basti pensare a come viene tratteggiato Kerenskij) è possibile trovare elementi e simboli legati a una profonda riflessione sulla situazione politica di quei giorni. Dall’immagine al pensiero, dal pensiero al concetto, in questo film ancor più che in altri il montaggio è il processo del pensiero, mentre il tutto è ciò che si trova nel concetto. Infatti lo stratificato e complessissimo impianto estetico del film nasconde sempre un doppio rapporto metaforico e analitico, di estremo rigore metodologico, storico e critico. Un cinema apparentemente legato a un’ortodossia linguistica e semiotica chiusa, ma che in realtà lascia in eredità una dialettica d’interpretazione notevole. L’uomo è in grado di pensare nella misura in cui ne ha la possibilità (diceva Heidegeer e riportava sempre Deleuze) e questo cinema deve vivere nella possibilità di imporre lo shock alle masse, lontano dalle ambiguità (anche a quelle formaliste). La sequenza iniziale, che si conclude con gli spari sulla massa e poi con l’alzarsi del ponte levatoio, sono la massima espressione possibile del dualismo tra shock e pensiero, anzi scontro, dove il (cine)pugno deve prevenire il (cine)occhio. L’immagine spinge il pensiero a pensare, a tendere verso il tutto formando una massa plastica, una materia segnaletica carica di tratti d’espressione metaforica di immagini distinte, ovvero “la nuova sfera della retorica filmica, la possibilità di esprimere un giudizio sociale astratto”. Queste parole di Ejzenstejn sono riprese da Deleuze nel definire i tre movimenti di un’immagine che proprio in Oktjabr’ trovano la massima espressione. Il primo è legato allo choc sensoriale che ci innalza dalle immagini al pensiero cosciente (dall’immagine al concetto), il secondo è legato al pensiero per quelle figure che ci riportano alle immagini (dal concetto all’immagine), e il terzo movimento è invece di una sintesi più profonda e inconscia (l’identità tra concetto e immagine). Tutte le ultime sequenze, aperte dalla parata di volti che rispondono all’esortazione di Lenin, introducono l’assalto finale al Palazzo condensando il pensiero in azione, nell’identità tra concetto e immagine come in quelle tra individuo e massa, o tra natura ed uomo (l’idea di Bazin che l’immagine cinematografica, a differenza di quella teatrale, muovesse dall’esterno all’interno, dalla natura all’uomo appunto). Il cinema si è liberato dell’ossessione del singolo nel reale, non ha più come soggetto l’individuo e come oggetto la narrazione; come se si fossero ribaltati i rapporti di predicazione, ora il soggetto diventa la massa (sempre per Deleuze non più relegata ad un’omogeneità qualitativa e tanto meno a una divisibilità quantitativa) e l’oggetto è la realtà (nel suo esplodere, nel suo farsi conflittuale quanto vitale). Il popolo ora ha la sua dignità e il suo potere. Ecco, è così che avviene la seconda Rivoluzione, dieci anni dopo, il Palazzo è stato conquistato e il cinema è stato decostruito. E non si può tornare indietro, in nessuno dei due casi.
3) Un secolo invano? (Un viaggio nel vuoto!)
L’uscita di Ottobre e quella quasi contemporanea de La fine di San Pietroburgo di Pudovkin (Konec Sankt-Peterburga, ’27) coronano il decennio raggiungendo la massima espressione possibile delle teorie estetiche sul montaggio, e rappresentando oggi ciò che possiamo considerare come l’apice del cinema sovietico sia su un piano teorico-intellettuale sia su quello lirico-emozionale (anche autori nuovi come Kozincev e Trauberg si avvicinano alle teorie dei maestri realizzando capolavori come La nuova Babilonia – Novyy Vavilon, 1929 – che attingono pienamente all’esperienza più formale). Nessuno forse allora sapeva che proprio questi film segnavano irrimediabilmente la fine degli straordinari esperimenti degli anni Venti, anche perché parallelamente (e in un certo senso anche internamente) al movimento di questa epopea unica già stanno maturando i semi di ciò che sarà. Pochi anni dopo, con la presa del potere da parte di Josef Stalin e il conseguente allontanamento forzato di Trotskij con la sua “rivoluzione permanente”, l’arte sovietica deve abbandonare definitivamente le avanguardie per un linguaggio più assoggettato al conformismo dominante, alla celebrazione degli eroi del passato come del nuovo dittatore, quasi a un moto reazionario e cristallizzato sullo stato delle cose. Erano i giorni del cosiddetto “realismo socialista”, della manipolazione del potere sul cinema che ne impoverisce il dibattito ma ne amplia la lotta per l’egemonia. A differenza del periodo precedente questo ritorno all’ordine però non fu accompagnato da un apparato di sintesi teorica e di procedimento formale, ma solo da vaghi principi che i nuovi autori dovevano ottemperare per aver il favore del regime (forse il solo Boris Barnet riuscì a mantenere una certa indipendenza). I due punti fermi erano essenzialmente l’intelleggibilità più ampia possibile per le masse poco educate e la creazione di esemplarità attraverso eroi/modelli, ed ecco che torna centrale la figura del personaggio e il ruolo dell’attore più canonico. Proprio su questo piano è interessante pensare a una delle critiche principali mosse ad Ejzenstejn, quella di non cogliere l’aspetto drammatico più personale (nel rapporto pensiero-azione), nel personaggio e dunque nell’individuo. Sempre consapevole della propria visione idealistica della Storia in cui l’astrazione e la potenza della massa simboleggiano l’atto eroico e rivoluzionario di un Popolo senza alcun protagonista, dovrà anch’egli fare però un passo indietro (nel 1935) verso la comprensione, la narrazione, la drammaticità più classica (gli eroi individuali ora ci saranno – Ivan, Nevskij – metafora di chi ora comanda il Partito, quando la Rivoluzione è avvenuta e anche il popolo ritorna all’ordine). Il bando staliniano, o meglio stalinista, all’arte protagonista della rivoluzione (divenuta ora matta e degenerata) farà le proprie vittime sotto l’insegna di un nuovo realismo contingentato ed astenico (prodromo fu proprio il suicidio Majakovskij, “…la barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici.”). Pure il nostro Ejzenstejn dovrà momentaneamente fuggire, all’alba degli anni ’30. Prima volerà a Hollywood (dove si appassionò di Charlot e dei lavori Disney) ma senza successo, soprattutto per divergenza di vedute sul suo possibile lavoro come regista (avrebbe dovuto girare Una tragedia americana completato successivamente da Josef von Sternberg), e poi in Messico dove cercherà di produrre Que viva Mexico! (di quel girato rimangono quattro opere provvisorie, la più importante è Thunder Over Mexico – montato nel 1933 da Carl Himm – comunque da lui non riconosciuta). Tornerà in Unione Sovietica nel ’35 appunto, dopo il grande ripensamento, ancora però ostracizzato nella sua opera (l’incompiuto Il prato di Bežin – Bežin lug, 1937 – ne è la dimostrazione) almeno fino ad Aleksandr Nevskij (1938), con la straordinaria collaborazione di Prokof’ev a enfatizzare la battaglia sul lago ghiacciato (in cui i bianchi sono cattivi, e i neri i buoni). Sarà però solo con il successivo, definitivo e non finito, Ivan il Terribile (Ivan Groznyj, 1844-58) che Ejzenstejn torna a guardare all’assoluto con un forma nuova, una grande “immagine” del tema del potere, “un’immagine che non indietreggia di fronte al rischio di spingere l’estasi della rappresentazione fino ai suoi limiti estremi, mostrandone la “passione” nel senso greco della parola pathos, cioè come evento terribile che sollecita rappresentazione e pensiero, e al tempo stesso eccede qualsiasi possibilità di farsi misurare per intero da una rappresentazione e da un pensiero” (dall’interessantissima visione di Montani). La critica alla ferocia di Stalin attraverso quella di Ivan è durissima ma sottintesa, e lo studio si sposta dal montaggio alla profondità di campo, all’uso pionieristico del colore in funzione psicologica e metaforica si mostra decine di anni avanti a quello che poi si vedrà. Il 2 febbraio 1946, meno di un’ora dopo aver ricevuto la notizia della condanna della seconda parte di Ivan, Ejzenstejn subì un infarto; nella degenza iniziò la stesura delle sue memorie, definendo “tempo in prestito” ciò che gli restava da vivere. Morì nella notte tra il dieci e l’undici febbraio del ’48, lasciando incompiuta una lettera sul colore nel cinema, indirizzata proprio a Kulesov. Il cerchio così si chiude, ma cosa rimane oggi? Difficile a dirsi, soprattutto a un secolo di distanza. Senza dubbio il primo aspetto che emerge è la museificazione, il vedere Ottobre (come del resto l’intera opera del suo regista e tutta la filmografia sovietica della Rivoluzione) come un oggetto misterioso, come una macchina del tempo fredda e asettica che ci visualizza quei dieci giorni con una certa distanza. Una cariatide dei tempi, insomma, senza più movimento, addirittura bulleggiata macchiettisticamente da autori che (anche in buona fede) non considerano minimamente l’apporto vitalistico che questi film ancora mostrano. A questa visione parziale però se ne aggiungono altre più profonde, che rendono una dignità quasi inconscia all’opera dei cineasti sovietici. Partiamo dai segni, e torniamo alle riflessioni di Deleuze. Ejzenstein in un primo tempo paragonava i segni del cinema a ideogrammi, per poi giungere a una visione più complessa di monologo interiore, primitivo. Un film parla una lingua non formata, pregna semioticamente e metaforicamente in attesa di un linguaggio che possa esprimerla. Qualsiasi narrazione dunque risulta fondata nella provvisorietà della propria immagine, quello che per Hjelmslev, a differenza di Metz dove esser riscontrato nella struttura della materia e che Jakobson ritrovava nel linguaggio del monologo intravisto proprio da Ejzenstejn. Proprio per questo lo spettatore si deve trovare al centro dello scontro tra immagini, nel pieno del flusso, secondo il linguaggio interiore di Ejchenbaum e le tensioni della favola di Tynianov. Il monologo interiore diventa al cinema un pensiero collettivo, di massa, della massa e quindi del popolo. Questa teoria affascinante quanto complessa abbraccia semioticamente molte opere e filmografie successive, basti pensare alle nuove cinematografie della modernità (tra anni ’60 e ’70), avvezze all’uso diretto ma soprattutto indiretto del monologo, alla rinnovata ricerca sull’immagine (partendo ovviamente dal Gruppo Vertov) erede dell’avanguardia formale. In secondo luogo è importante analizzare ciò che Montani sostiene come una delle straordinarietà dell’apparato teorico di Ejzenstejn, ovvero l’enorme e polimorfo substrato culturale di partenza” da G.W.F. Hegel al materialismo storico, da E.Cassirer a S.Freud, ma la loro stessa eterogeneità sta a indicare che Ejzenstejn le utilizzò in piena autonomia, ricavandone una concezione fortemente unitaria e al tempo stesso pronta ad accogliere sollecitazioni e sostegno dai più diversi campi del sapere, dalla psicolinguistica di L.S.Vygotskij e A.R.Lurija all’antropologia di L.Lévy-Brühl e M.Granet, dalla teoria del linguaggio di N.G.Marr alla scienza letteraria dei formalisti ([…] senza dimenticare la lezione proveniente dal teatro come dallo spettacolo circense, dall’arte cinese e giapponese ai cartoons disneyani, da J. Joyce al romanzo poliziesco e d’appendice, dalla musica barocca al jazz). Questo approccio, rivoluzionario almeno quanto quello dello specifico filmico, pone ancora oggi Ejzenstejn come un autore sostanzialmente unico – paragonabile forse solo al suo corrispettivo nella modernità, a quel Jean-Luc Godard teorico ed autore coltissimo ed onnivoro che nelle abnormi Histoire(s) du Cinema (1985-88) condensa il lavoro programmatico iniziato con Gorin a metà anni Settanta – e capace di stimolare un discorso sul cinema totale, che possa coinvolgere non solo le altre arti, ma i riti ed i saperi, la sociologia e la biologia, tutto ciò che comporta l’appartenere a questo sistema terra, prima che a questa società. L’attualità della ricerca ejzenštejniana dunque resiste ancora nel pensiero sulla forma, nel rapporto di interno/esterno possibile dello schermo (per stare dentro al cinema è necessario starne decisamente fuori), dell’urgenza di un rapporto di interdisciplinarità delle visioni sul reale per cercare di definirne un quadro completo e scientifico (ed ecco che torna un’altra necessità, quella dell’approccio marxista ed engelista, ovviamente attualizzato e ricalibrato). Infine è ancora singolare quanto quasi ironico segnalare come su un piano squisitamente tecnico, l’apporto che ha avuto il “montaggio delle attrazioni” sulla storia del cinema successiva sia significativamente limitato rispetto a quello che ha avuto sul linguaggio televisivo e mediatico. Sarà proprio la televisione, in special modo quella commerciale, a usufruire di queste teorie di associazioni (ovviamente semplificate e funzionali all’aspetto pubblicitario) nell’intento di vendere prodotti non mostrandoli o astraendo il contesto in cui verrebbero usati nel quotidiano. Il montaggio come opposizione disperata a una situazione nella continuità del tempo filmico (egh, 1976), torna a essere artificio sovrastrutturale reinglobato nel “parlare” direttamente al capitale. Ma dobbiamo guardare oltre. Montani (pensando direttamente anche al pathos ed all’arte totale del Gesamtkunstwerk di Trahndorff) vede in Ejzenstejn una tensione nell’arte come luogo di elaborazione di una forma sensibile e affettiva del pensiero, che precede la forma logico-concettuale ma non ne viene superata in quanto, piuttosto, costituisce il laboratorio di senso a cui sempre di nuovo la forma logica attinge per dispiegarsi e trasformarsi. Dobbiamo ripensare necessariamente a questo laboratorio in cui le componenti percettive sono utili a dispiegare le potenzialità della ragione, e quindi la comprensione degli stessi rapporti sociali che ci circondano, non fermarci alla sola visione ma entrare e uscire continuamente dallo schermo, dialogare con esso attraverso i propri limiti e le proprie forme, interrogare l’immagine all’inverosimile per interpretarla all’oggi. Dare dignità ad Ottobre e ad Ejzenstejn significa oggi essenzialmente viverlo, ben prima e dopo il vederlo.
Ottobre, ovvero i dieci giorni che sconvolsero il mondo. Oggi sono passati cento anni dalla Rivoluzione e novanta dall’uscita del film. Lontano dal considerare la fine del socialismo reale come del comunismo, delle avanguardie formali come del realismo, della lezione teorica e della pratica pura. Forse non dovremmo solamente pensare a ciò che poteva essere e non è stato, ma interrogarci sul come certi fatti siano accaduti e altri meno, tralasciando per un attimo l’aspetto più nostalgico ed emozionale (anche se molto difficile, almeno per chi scrive) per un approccio più razionale e dialettico, proprio come ci hanno insegnato Marx, Lenin, lo stesso Ejzenstejn e tutti coloro che nella storia si sono presi sulle spalle il peso enorme di una Rivoluzione. In una sola parola, bisogna resistere. Del resto, “Morire non è nuovo sotto il sole, ma nuovo non è più nemmeno vivere”. (Sergej Mikhajlovic Ejzenstejn – Сергей Михайлович Эйзенштейн).
Erik Negro