ORDER NA ARESHT (1926), di Georgi Tasin
Basterebbero probabilmente i sostanziali split screen che già nel 1926 frammentavano l’immagine, basterebbero le dissolvenze incrociate su 3 o 4 livelli per comporre la soggettiva dell’incubo e del delirio, basterebbero i tanti istanti in cui il montaggio delle attrazioni diventa quasi subliminale nella sua straordinaria e spiazzante velocità, basterebbero le ripetute associazioni metaforiche fra il gioco del gatto col topo che puntella l’interrogatorio e il mare che ritorna come una nebbia che avviluppa i flashback, basterebbero gli sprazzi di altissima umanità fra la madre e il figlioletto destinato a diventare ricatto e pedina di scambio, oppure basterebbe l’interrogatorio che dichiara il bluff delle autorità con la lingua dello specifico filmico, montando un’intera sequenza fatta di soli scavalcamenti di campo e interminabili inquadrature frontali sull’intimidatorio comandante controrivoluzionario che beve il caffè. Così come basterebbe il progressismo di quella centralità femminile, impensabile o quasi per il tempo, tutta fatta dell’eroismo, degli ideali, dell’emancipazione e del dolore incarnati dalla protagonista, oppure basterebbero i continui riferimenti visivi all’Espressionismo tedesco fra i tagli di luce e le inquadrature sghembe e profonde, dove la composizione dell’immagine tende costantemente a punti di (non) fuga obliqui che ulteriormente la accerchiano e la soffocano. Sarebbe praticamente impossibile, e tutto sommato esercizio ozioso, enumerare tutte le straordinarie trovate visive e linguistiche snocciolate da Georgi Tasin, al tempo direttore dello studio cinematografico di Odessa, nel suo Order na Aresht, letteralmente “Mandato di cattura”, inestimabile caposaldo ucraino dell’Avanguardia Sovietica studiato e citato da Aleksandr Dovzhenko – non è certo un caso che la copia dell’eccellente restauro digitale provenga proprio dall’archivio del Dovzhenko Center – per poi diventare raro e da troppi rimosso, che ritorna con l’accompagnamento al piano di Antonio Coppola fra i “Ritrovati e Restaurati” del Cinema Ritrovato di Bologna 2019. Un film orgogliosamente sperimentale, teorico nel suo ragionare per immagini sulle immagini, eppure perfettamente chiaro e narrativo nel suo scorrere muto con i cartelli ridotti al minimo e ritorni già tarantiniani allo stesso momento cambiandone punto di vista, giunto nello stesso anno de La Madre di Pudovkin e pochi mesi dopo l’Ejsenstejn delLa corazzata Potemkin ma ben prima di quello di Ottobre, che nel ’26 ritornava a pochi anni prima, quel 1818-1821 della guerra civile fra l’Armata Rossa e i controrivoluzionari bianchi, per rileggere, ricontestualizzare e declinare al femminile, e senza l’attentato del 1904 contro il ministro dell’interno zarista Vjačeslav Pleve, gli sviluppi di quella che a inizio secolo era stata la storia del rivoluzionario Egor Sozonov, frastornato dalla sua stessa bomba e a lungo torchiato dagli agenti segreti dello Zar travestiti da infermieri con menzogne e ricatti morali per sfruttare il suo stato di confusione mentale nel tentativo di carpirgli informazioni, fino a fargli credere di aver ucciso decine di innocenti e spingerlo al delirio allucinato.
È un film sul silenzio ostinato delle donne emancipate e rivoluzionarie anche sotto la minaccia di vendette trasversali contro il marito e il figlio, Order na Aresht, è un film di inganni, di (non) tradimenti e di ipocriti burattinai che anticipano le ingiuste rappresaglie, è un film di vittime e di atroci e reazionarie vendette, è un film di spionaggio, soprusi e di spinte verso lo squilibrio mentale. Inizia in medias res, velocissimo nello scorrere, con il Comitato Rivoluzionario dell’Armata Rossa che sta temporaneamente svuotando il quartier generale per lasciare in treno la città, e con il presidente del Comitato rivoluzionario Sergej Kargal’skij che chiede alla moglie Nadja di cambiare casa e rimanere per nascondere e custodire un pacco pieno di documenti segreti. L’Armata Bianca non ci metterà molto a localizzarla, ma pur nel metterle a soqquadro la casa non riusciranno a trovare il pacco. Quella che sembra una piccola vittoria sarà tuttavia l’inizio della fine, con Nadja arrestata e sottoposta a sempre peggiori torture psicologiche fino allo shock nervoso, al tracollo, alla conferma involontaria, semplicemente con il proprio indotto stato di agitazione, delle informazioni già in possesso dei militari controrivoluzionari. Cercano di farle credere che sia stato il marito a tradire, poi che dipendano esclusivamente da lei la vita di Sergej e del figlio, e infine che le soffiate fornite dal reale traditore, il suo primo marito Valery entrato come un infiltrato nella Rivoluzione solo per sete di vendetta e disprezzo nei confronti di Nadja, siano state confessate da lei stessa durante il delirio, accusandola di quattordici compagni fucilati in una sparatoria notturna e consegnandola direttamente agli arresti e alla vendetta marziale della Rivoluzione per la quale stava combattendo. Le portano via il figlio per crescerlo nell’odio verso Marx, le portano via l’onore di chi mai ha ceduto volontariamente alle pressioni ma viene convinta di una colpa che non ha, e infine le portano via l’amore, facendo in modo che sia proprio Sergej a denunciarla e a richiederne il nuovo, e questa volta rivoluzionario, mandato di cattura per tradimento. Un mandato di cattura che non farà in tempo a diventare un nuovo arresto, anticipato dal suicidio di chi non trova più fiducia nemmeno in famiglia, e a poco servirà il pentimento di Sergej di fronte all’agghiacciante lettera di confessione, gelosia, odio e vendetta scritta da Valery a Nadja, dalla quale emergono le reali circostanze della sparatoria notturna e la sostanziale estraneità di una donna che mai ha realmente parlato, mai ha realmente rinnegato, mai ha realmente tradito. Nemmeno durante le visioni più atroci, nemmeno durante la febbre più alta, nemmeno durante il delirio più acuto. Nemmeno durante le dissolvenze, le attrazioni, le soggettive, i più geniali raccordi di montaggio, la frammentazione dell’immagine a far emergere la cruda verità livello dopo livello, tortura dopo tortura, incubo dopo incubo. Come un martello, fatto magari di più immagini scomposte del minaccioso conduttore dell’interrogatorio, che si avvicina al volto pronto a colpire, come un neo dietro alla schiena per far vacillare la fiducia, oppure come un oculo centrale che quasi come uno specchietto retrovisore, e di certo come il cinema di tanti decenni dopo dagli incubi firmati Dalì dell’Hitchcock di Io ti salverò ai punti di vista multipli di De Palma, torna a ridiscutere ciò che è accaduto. Fra politica, umanità, linguaggio cinematografico, ossessioni. Avanguardia, di ieri e di oggi.
Marco Romagna