OPPENHEIMER (2023), di Christopher Nolan
Prometeo rubò il fuoco agli dei e lo diede al genere umano. Per questo fu punito e torturato per l’eternità.
«Sono diventato la morte, distruttore dei mondi», legge direttamente dall’originale in sanscrito del Bhagavadgītā un giovane J. Robert Oppenheimer che ancora non può nemmeno immaginare come la fisica quantistica, quel nuovo campo della scienza studiato in Europa e da lui stesso importato negli Stati Uniti, lo porterà ben presto a capeggiare il team che inventerà il primo ordigno nucleare, né tanto meno come il suo utilizzo immediato su Hiroshima e Nagasaki farà scattare in lui la più insostenibile fra le crisi di coscienza e la più disperata ricerca di redenzione attraverso una consapevole e volontaria sottomissione al martirio. «Sono diventato la morte, distruttore dei mondi», risuonerà ripetutamente nella sua testa rendendosi conto di aver consegnato all’umanità la capacità di autodistruggersi, l’innesco di un processo forse irreversibile verso il baratro. Non più con quella «probabilità vicina allo zero» con cui i calcoli di Hans Bethe avevano (più o meno) fugato il dubbio sollevato da Edward Teller che con la reazione a catena esponenziale per la detonazione della prima bomba potesse incendiarsi anche l’atmosfera e prendere fuoco l’intero pianeta, ma questa volta con la certa convinzione dell’irresponsabilità di un Potere che già una volta non si era limitato alla minaccia da usare come deterrente per «fermare tutte le guerre», ma al contrario in futuro «avrebbe usato qualsiasi arma a disposizione», compresa forse la ancor più temibile bomba a idrogeno della quale a questo punto opporsi alla costruzione, per uccidere massivamente innocenti. Eppure non c’è solo l’introspezione di uno scienziato (e politico, e carnefice, e martire, e donnaiolo, e personaggio egoriferito e magnificamente contraddittorio), nell’ambiziosissimo e complesso Oppenheimer con cui Christopher Nolan, dopo il mezzo scivolone di Tenet, torna a volare altissimo e trova quello che è probabilmente il suo film più riuscito, (letterale) bomba atomica stratificata e dialogatissima che, ben lontana dall’agiografia, parte dalla figura, ambigua sin da quella iniziale puntata del primo nome che nemmeno quando gli viene espressamente chiesto rivela stare per Julius, di J. Robert Oppenheimer, e seguendo in maniera rigorosamente non lineare il suo paradigmatico percorso di ascesa, caduta (minuziosamente pilotata con un complotto maccartista e un processo farsa) e (un po’ ipocrita) tardiva riabilitazione, mette in scena con straordinario dispendio di mezzi e un cast all-star (oltre alla strepitosa forma del protagonista Cillian Murphy, meritano particolare menzione il Lewis Strauss di un perfido Robert Downey Jr, l’Edward Teller di Benny Safdie e l’Albert Einstein di Tom Conti, ma anche il Leslie Groves di Matt Damon, la Jean Tatlock di Florence Pugh e la magnifica Kitty/voce della coscienza di Emily Blunt, senza dubbio il personaggio femminile più forte e meglio caratterizzato nell’intera carriera dell’autore britannico, senza dimenticare i piccoli e fondamentali cameo di Rami Malek e Kenneth Branagh) una sontuosa riflessione ucronica tanto sulle implicazioni etiche e umane della sua bomba quanto sugli interstizi oscuri del sistema e della Storia, tanto sulle forme, i linguaggi e il senso stesso del cinema quanto sulle conseguenze anche morali della creazione. Sul pulviscolo, sulla luce, sul dirigere e dover rispondere, sull’essere traditi, sui soprusi del Potere, sul passare alla Storia, sulla (indubbiamente scarsa) restituzione, sulla (forse eccessiva) redenzione. Sulla perfetta e (im)possibile coincidenza fra il successo e la sconfitta. Sulla matericità epica della pellicola, senza la quale Oppenheimer, girato quasi interamente in IMAX70 a 15 perforazioni per fotogramma e le cui poche inquadrature non realizzate in IMAX sono state comunque filmate su 70mm, non potrebbe esistere e non avrebbe senso.
Una storia, tratta dalla minuziosa biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin American Prometheus a sua volta tratta dalle carte processuali, che intreccia due capitoli, la fissione (a colori) della soggettività di Oppenheimer e la fusione (in bianco e nero, con tanto di pellicola IMAX70 speciale inventata per l’occasione dalla Kodak e usata per la primissima volta) dell’oggettivo che si ritorcerà contro la sua nemesi Lewis Strauss, o forse più semplicemente il prima e il dopo, la scienza e la distruzione (del mondo, di un uomo, dell’etica), il trionfo e la rovina, il personale cambio di punto di vista del protagonista con in mezzo quel Trinity Test che il 16 luglio 1945 introdurrà il mondo nell’era nucleare. Capitoli che Christopher Nolan a loro volta suddivide in due filoni narrativi (o forse tre, a seconda di come si vuole considerare la struttura a flashback e prolessi che attraversa episodica l’intera vita dello scienziato innestandosi nell’avviluppo degli altri due) con cui le più classiche ossessioni nolaniane sulla relatività del tempo e della durata, ma anche su come attraverso i corsi e ricorsi storici prima o poi si trovi sempre una connessione fra i diversi strati del passato e il futuro, trovano finalmente una compiutezza che per la prima volta non ha bisogno di alcun elemento didascalico e nemmeno esplicito: basta lo straordinario montaggio, che insieme alla magnifica e pressoché ininterrotta partitura realizzata da Ludwig Göransson si muove liberamente avanti e indietro negli anni con un ritmo teso e incalzante, usando in parallelo i due processi e le loro intrinseche analessi, sospendendo all’improvviso le narrazioni e ritornando agli stessi momenti-cardine, anticipando l’audio dei passaggi di tempo e cambiando più volte punto di vista. Da una parte il dibattimento palesemente irregolare e a porte chiuse con cui nel 1954 verrà revocato allo scienziato il nulla osta di sicurezza, di fatto annientandone l’influenza politica e distruggendone sistematicamente la reputazione con false accuse e verità manomesse, e dall’altra le udienze con cui cinque anni dopo venne (più o meno) ristabilita la verità con la revoca della nomina a Segretario del Commercio di Strauss che, da perfetto burattinaio, aveva incastrato Oppenheimer per astio personale dopo avere subito da lui un’umiliazione pubblica. Due sedute giudiziarie dalle cui domande, risposte e contraddizioni, come si diceva, Nolan parte per narrare a blocchi l’intero percorso di vita del protagonista, dalla gioventù ai premi di riabilitazione ritirati in età senile, passando per quel primo test nel deserto di Los Alamos in cui concentrare, senza nemmeno un fotogramma in CGI, quasi tutta la spettacolarità del film in una singola sequenza centrale, prima della scelta etica di lasciare totalmente fuori campo il Giappone con la morte e il dolore degli Hibakusha, perché non ci può essere bellezza nell’utilizzo di un’arma di distruzione di massa, non ci può essere magniloquenza visiva, ma solo senso di colpa, disperazione, consapevolezza di aver «cambiato per sempre il mondo» in peggio quando si sognava di farlo in meglio – «Noi fisici abbiamo conosciuto il peccato». Del resto tutta l’ostentata grandiosità kolossal di Oppenheimer, 100 milioni di dollari di budget già più che raddoppiati nei primi giorni di programmazione worldwide, mentre praticamente solo l’Italia ha deciso di posticiparne l’uscita di un mese, si gioca sul confine fra il visibile e l’invisibile, fra la teoria (che, si sa, «arriva solo fino a un certo punto») e la pratica, fra la particella elettromagnetica e la detonazione, fra l’ingenuità e l’amara consapevolezza, fra l’immaginazione come pura vertigine onirica e la luce intensa dei neutroni che realmente bombardano gli atomi fino a dividerli. Fra l’ipocrisia un po’ vigliacca del creatore che deve congratularsi con tutto il team per la perfetta riuscita dei bombardamenti mentre vede sulla loro pelle gli effetti devastanti della detonazione e la sincerità della crisi di coscienza di fronte a Truman (pochissimi minuti in cui, nel ruolo di un cinico presidente, ha modo di giganteggiare anche Gary Oldman), che a differenza dello scienziato non si sente affatto «le mani sporche di sangue» e anzi rivendica con orgoglio di essere colui che ha ordinato di utilizzare gli ordigni. Altri punti di vista, altre opinioni, altre moralità. Altri confini. Come quelli fra la scienza e la politica, come ben prima di tradirlo rimprovererà Teller a un Oppenheimer ormai «non più scienziato da anni», o fra le personali simpatie rivoluzionarie del protagonista (non solo la fisica rivoluzionata dalle teorie quantistiche, ma anche Picasso, Stravinsky, Freud, Marx, e quindi quasi di conseguenza i rivoltosi spagnoli) e la sua contezza assolutamente militare della necessità di arrivare all’ordigno prima che lo ottenessero e lo usassero i nazisti, tanto fedele alla causa statunitense, ai suoi segreti e alle sue imposizioni di «compartimentazione e sicurezza», già anticomuniste anche quando l’URSS era l’alleato, da ritrovarsi a perdere la donna amata ben più della moglie, e anzi a sentirsi (e probabilmente essere) per molti versi responsabile del suo suicidio.
«L’importante non è saper leggere la musica, è sentirla. Riesci a sentirla, Robert?», chiede il fisico danese Niels Bohr a un giovanissimo Oppenheimer ancora studente in Europa. Una perfetta metafora delle sue difficoltà in laboratorio, geniale nel pensiero teorico eppure insofferente alla pratica, ai calcoli, a ciò che non è pura fascinazione istintuale, ma soprattutto delle sue notti insonni a pensare ai rapporti di forza fra le particelle infinitesimali, al pulviscolo della materia, agli atomi che si uniscono fra il visibile e l’invisibile fino a diventare (solo apparentemente) oggetti solidi. Alla luce e alle sue rifrazioni che squarciano il buio, che poi, a ben vedere, sono gli stessi elementi che compongono il cinema – forse l’unica risposta possibile al «qualcuno dirà mai la verità?» con cui Oppenheimer, sconsolato e nella aperta disapprovazione di Kitty, stringe la mano a chi lo ha appena venduto al Potere sputando falsità, invidia e rancore personale. Forse è per questo che durante il Trinity Test vicino ai suoi occhi c’è proprio quello meccanico di una piccola macchina da presa, mentre di fronte a quel gigantesco laboratorio nel deserto (a voler seguire il collega Andrea Bosco1 in un parallelo metacinematografico e metaregistico, il set in cui il protagonista ha scelto, preparato e diretto co-protagonisti e tecnici, per un prodotto che immancabilmente lascerà il controllo del suo creatore per finire nelle mani dei “produttori”, ovvero il governo statunitense che per il Progetto Manhattan aveva all’epoca stanziato 2 miliardi di dollari) va in scena il terribile spettacolo con la forma di un fungo luminoso, in attesa che la velocità ridotta del suono trasporti, dopo la luce, anche il fragore della detonazione. È (anche) così che Nolan ragiona apertamente sul mezzo e sulle sue forme, suggerendo potenziali rimandi metaforico-allegorici, e decidendo deliberatamente di destrutturare ogni possibile riferimento cinematografico. In questo senso Oppenheimer è il contrario di tutto ciò che sfiora: anti-biopic, con la linearità di una vita sostituita dal continuo susseguirsi di frammenti non necessariamente ordinati; anti-giudiziario, con un processo-farsa da tenersi in uno stanzino privo di pubblico e un’udienza in realtà non processuale che però diventa un vero e proprio processo; anti-western, con una sequenza in tenda insieme al fratello e due momenti a cavallo con la moglie che nient’altro sono che l’anticamera della trasformazione di Los Alamos in cittadella fortificata e laboratorio; anti-melò, con la quasi totale mancanza di romanticismo nell’inizio del rapporto con la moglie Kitty (con tanto di figlio “parcheggiato” per lungo tempo presso l’amico comunista Haakon Chevalier, che nel celebre «incidente» proporrà a Oppenheimer di passare informazioni ai sovietici servendo, nonostante il suo rifiuto, un assist d’oro ai cospiratori per fare fuori entrambi) e con i fiori continuamente buttati prima che l’amante Jean si suicidi. Ma soprattutto Oppenheimer è un film che innesta riflessioni per molti versi bergmaniane in una struttura che per forma, complessità e ambizioni guarda apertamente verso il cinema di Stanley Kubrick, configurandosi però come una sorta di anti-Bergman e di anti-Kubrick, alla ricerca di forze, fragilità e ambiguità in qualche modo opposte a quelle dell’autore svedese (si veda la scena onirica di sesso in cui, durante il processo, Kitty vede il marito copulare con Jean della quale aveva sempre saputo, ma «adesso l’umiliazione è pubblica»), e infinitamente più umanista del glaciale e geometrico regista americano pur nel medesimo approccio scientificamente inattaccabile. Del resto, a ben vedere, perfino la scelta della pellicola e dell’IMAX è per Oppenheimer così imprescindibile proprio in quanto parziale negazione dell’IMAX, dove il grande formato serve sì a restituire la granulosità del pulviscolo e tonalità di colore altrimenti non replicabili in digitale, ma al di là della già citata unica sequenza realmente spettacolare del Trinity Test (a sua volta atterrente nelle rifrazioni ectoplasmiche delle altre detonazioni lasciate fuori campo) che non può in alcun modo fare a meno degli sfarfallii analogici, dei tentativi (forse più vicini alle sperimentazioni di Stan Brakhage che alle tanto citate suggestioni universali di Terrence Malick) di mostrare l’invisibile dell’immaginazione quantistica del protagonista, dei tre brevi momenti onirici e delle poche e rapide panoramiche tipicamente nolaniane quando si introduce un nuovo luogo, la stragrande maggioranza del film è costituito da campi e controcampi perfettamente classici in poche e anguste stanze, con la massima definizione possibile dell’immagine intenta a catturare non tanto lo spettacolo, quanto le minime variazioni nelle emozioni e nelle mimiche facciali degli attori, i loro primi piani, i loro (im)percettibili movimenti. Il loro (pre)vedere atterriti, nell’ennesimo riverbero di luce di quel punto di non ritorno del secolo breve sospeso fra l’ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale e il primo della Guerra Fredda, quello che saremmo diventati, quello che sarebbe diventato il mondo, quella che sarebbe diventata la società di oggi, e quello che rischia ancora e più che mai di diventare la società (in cenere?) di domani. Ma anche quello che può ancora essere il cinema, fabbrica di immagini e di sogni, di luci e di ombre, di complessità e di linguaggi, di riflessioni e di emozioni contrastanti. E soprattutto sala, preferibilmente piena, in cui immergersi fra le particelle di luce che fendono il buio, per un’esperienza condivisa e multisensoriale che, come già in Dunkirk, non può avere corrispettivo casalingo, ma ha bisogno di uno schermo gigante e dei flicker di una proiezione in emulsione, delle poltrone che tremano nella profondità dei bassi, della purezza perturbante del senso di una ritrovata e meraviglia. Più forte di ogni (ignava) abitudine del pubblico contemporaneo, più forte di ogni crisi: forse una nuova speranza per l’intera filiera, o per lo meno la dimostrazione che, fra plasticosi marchi di bambole da rilanciare e serialità superomistiche in cinetutina aderente, può fare successo planetario anche un prodotto di elevatissima qualità cinematografica e intellettuale. «Il film più importante del XXI secolo», ha sentenziato Paul Schrader parlando di Oppenheimer. Forse esagerando un po’, ma non è difficile capire perché lo pensi, né tanto meno auspicare che, proprio come la luce che mette in scena, il nuovo e bellissimo film di Christopher Nolan possa avere realmente rischiarato una nuova via, bigger than life, con cui riportare il cinema al centro del cinema.
Marco Romagna