ONE THOUSAND ROPES (2016), di Tusi Tamasese
Nella cultura samoana, i fantasmi hanno una vera e propria fisicità. Possono attaccare, soffocare camminando sul petto, mordere, e forse persino reincarnarsi nel ventre di una donna incinta. Soprattutto quando questi fantasmi sono quelli di un passato di violenza domestica, fantasmi destinati a perseguitare chi in passato ha commesso gravi errori e ora vive solo e nel senso di colpa, tanto che sul muro di casa, al posto delle tradizionali foto di famiglia, ci sono ora solo chiodi e macchie sul muro. Le foto rimosse, invece, sono conservate in una scatola, nascoste alla vista, come se Maea, ex pugile maori ormai anziano ma ancora “re della strada”, non si ritenesse degno di avere una memoria, o come se non potesse sostenere gli sguardi che emergono a distanza di anni dalle istantanee dei tempi felici. Ma, come tutti, anche Maea ha almeno un milione di corde, One thousand ropes, che lo legano al proprio passato, come una doppia mandata, come un segno che rimane tutta la vita. Ora è cambiato, ha imparato a controllare la sua rabbia, e le sue mani abituate a picchiare fino a sanguinare adesso sono impegnate a impastare e modellare con leggiadria i dolci al limone per il panificio in cui lavora, quando non a manipolare con un tatto se possibile ancor più dolce i rotondi ventri delle donne incinte. Maea compie riti propiziatori, fa nascere i bambini ascoltando i primi vagiti di vita, e secondo tradizioni subito dopo il parto sotterra ogni volta la placenta, forse perché la vita che nasce è in un certo senso la morte dell’attesa di questa vita, o forse perché ogni donna, sapendo di un pezzo di se stessa tumulato in un determinato punto, possa in ogni momento della sua vita ritornare a quel luogo e a quel momento sapendo di ritrovarsi anche fisicamente.
Avevamo già conosciuto Tusi Tamasese nell’ormai lontana Venezia 2011, quando nel concorso Orizzonti era stato presentato O Le Tulafale, titolo internazionale The Orator, ovvero il primo film nella storia del cinema interamente samoano per produzione, scrittura, regia e attori. Nella storia semplice e universale di un contadino affetto da nanismo, l’esordio del cineasta era un detour della cultura dell’arcipelago di Samoa, un viaggio nelle tradizioni e nei valori che rendono forte l’uomo, un progressivo inoltrarsi nelle loro profonde spiritualità, nei loro ancestrali legami con la terra, nella loro vita antichissima e immutabile, con cui il regista è nato e cresciuto per poi spostarsi a studiare cinema nella vicina Nuova Zelanda. Con l’opera seconda One thousand ropes, selezionata nella sezione Panorama dalla 67ma Berlinale, Tamasese continua in un certo senso lo stesso lavoro, immergendosi in una cultura di anime e di fisicità degli spettri, di gerarchie e di rispetto che sarebbe dovuto a chi è più anziano, in un continuo inseguirsi e sovrapporsi di vita e morte a partire dal tradizionale dente incastonato in un dito del piede, fonte di dolore e di sangue ma anche di equilibrio per tutto il corpo, per passare al culto della placenta, e ancora al rapporto con il vissuto e con gli avi. One thousand ropes è un film che danza fra il passato che ritorna e il futuro delle vite che devono ancora venire alla luce, fra il regno dei vivi e quello dei morti, fra l’amore per una figlia che un giorno si ripresenta abusata, incinta e pesta, e la paura crescente che lo spirito in giro per casa voglia fare del male a lei o alla creatura che porta in grembo.
Maea va quotidianamente in cerca di limoni caduti dall’albero, li sceglie con cura e poi va a panificare, dolcemente, con grazia, come se la gradevolezza di ciò che uscirà dal forno potesse addolcire una vita straziata, colpevole, triste. Quando però lo spettro inizierà a soffocarlo nella notte, e ancor di più quando affermerà di non voler più fare ritorno alla propria tomba ma di volere nuovamente vivere rinascendo dal grembo della figlia, la violenza torna a emergere nella vita di Maea, e in panificio è necessario riattaccare alla corrente l’impastatrice perché altrimenti le mani dell’uomo ferito ridurrebbero tutto in poltiglia. Eppure, questo ritorno alla violenza come reazione a paura e frustrazione non è certo un ritorno agli errori del passato, ma è anzi ciò che nasce dall’amore per le due generazioni che vengono dopo di lui, è una difesa verso una vita ritenuta ben più importante della propria, è non la recisione, ma il superamento della foresta da un milione di corde che avvolge la vita dell’uomo. Fra massaggi prenatali, impasti e battiti fetali, One thousand ropes è un uomo che si ritrova faccia a faccia con il proprio passato, con la propria figlia e con i propri fantasmi, in un film sui prezzi da pagare per riacquistare la propria forza. Perché l’uomo, per quanto possa essere possente e invincibile, è fatto anche di sangue, lacrime, umani cedimenti – “Questa bambina ti sta rubando ciò che io ho rubato a tua madre” -, e deve necessariamente cadere per potersi davvero rialzare.
Forse One thousand ropes non è un “bel” film, un po’ sconnesso nel suo rutilare di messaggi e di riferimenti culturali, un po’ sfilacciato nel suo voler far convivere l’uomo samoano e come una cultura millenaria guarda al passato con gli ambiti narrativi del film horror, a volte forse un po’ indeciso sulla strada narrativa da seguire nella marea di fascinazioni che riesce a evocare. Ma, appunto, è senza dubbio un film estremamente affascinante, che fa sue le suggestioni di una tradizione così distante dalla nostra immergendo letteralmente lo spettatore in un mondo lontano, secolare, quasi immutabile. Un mondo nel quale le tradizioni e le leggende dettano ancora le regole della vita, un mondo sincero, limpido e schietto, nel quale ognuno si sa ancora assumere le proprie responsabilità. Non resta che tornare ancora una volta alle leggende, trovare il giusto intruglio, profanare la tomba per scacciare il fantasma ed essere finalmente in pace e liberi dalle proprie colpe e dal proprio passato. Fino a quando le foto, quei ricordi di famiglia, possono finalmente tornare al loro posto sul muro, possono essere di nuovo omaggiate, possono di nuovo riportare alla commozione di quei tempi. Come un ritorno a dove è sepolta la placenta, a quel posto nel quale ogni donna sa di poter trovare, belli o brutti, uno dei momenti più importanti della sua vita: il miracolo della vita che si rinnova.
Marco Romagna