«Se non vuoi annegare, fatti oceano», recitano espressamente le note di regia che accompagnano sin dalla prima proiezione fra gli Shorts della Berlinale gli straordinari “mille e uno tentativi di essere oceano” di Yuyan Wang, ora incoronati dalla giuria giovani «per la forza del loro movimento ondulatorio, violento e ipnotico» come miglior film nel concorso di Pesaro 2021. Undici minuti perfettamente consapevoli che non esiste alcun modo di trattenere l’oceano con le mani, che non si può limitare la sua vastità, che non si può fermare il moto costante delle sue onde, che non si può tentare di ingabbiare in una forma definita ciò che è liquido, vivo e privo di confini. Ci si può solo immergere, lasciandosi trasportare e poi travolgere dalla sua energia, una goccia dopo l’altra, un’onda dopo l’altra, un frammento dopo l’altro. Si può solo essere parte dell’incantesimo, una particella fra i flutti che riempie i polmoni di fiato e poi timidamente tenta di mettere la testa sotto la superficie, dell’acqua come del flusso di immagini che la ritraggono e in ogni modo la imitano, ondulatorie e inarrestabili, asimmetriche e incalzanti, vorticose e lisergiche. Immagini sottomarine o microscopiche, umane o robotiche, naturali o meccaniche, acquatiche o persino animate in 3D, a rincorrere tutto ciò che è mare e onda dalla ola in uno stadio alla devastazione delle alluvioni, dalla fatica dello sport all’assenza di gravità nello Spazio, dalla lava all’immondizia, dal fuoco alla pistola, dal trapano alla bolla. Immagini tanto rapide che non si possono singolarmente contestualizzare, processare e interiorizzare, ma ci si può solo perdere dentro, fino a percepire ogni atomo della loro materia come paradossale e pura astrazione, come un’impressione totalizzante e subliminale, come una molecola ipnotica nel frenetico scorrere dello specifico filmico che le lega l’una all’altra.
Scaricare, selezionare, comprimere e riciclare. Per poi montare e ricaricare le immagini sullo stesso medium da cui sono tratte. Dalle clip proposte direttamente dall’intelligenza in silicio di YouTube, che suggerisce i video correlati e che “potrebbero piacere” in base ai gusti e alle visioni precedenti finendo (in)volontariamente per restringere ulteriormente lo sguardo di un’utenza sempre più pigra e distratta, alla tessitura umana che scompone e ricompone i loro frammenti, li rende una liquida ipnosi e un mosaico di tessere sempre nuove. Parte dagli “oddly satisfying videos” One thousand and one attempts to be an ocean, quei filmati minimali che ormai da una decina d’anni popolano il web, nati da Reddit e ora utilizzati da milioni di persone in tutto il mondo per distendere i nervi. Video nati per essere rilassanti e ripetitivi, ma che nello strabiliante montaggio della regista classe ’89, nata in Cina ma ormai stabilmente di stanza a Parigi, esattamente all’opposto si sbriciolano e si incastrano fino a ripresentarsi come un flusso psicotropo di immagini e di suoni che letteralmente bombardano lo schermo e lo spettatore con il loro scorrere vorticoso, con i loro legami impensabili, con il loro inaspettato parlarsi. Riflette in primo luogo sulla necessità di imparare di nuovo a guardare, Yuyan Wang, sulla necessità di ritrovare legami fra ciò che si vede, e lo fa attraverso l’impossibilità di focalizzarsi sulle singole immagini, privando lo spettatore del tempo minimo necessario per iniziare a penetrarne la superficie, ma al contempo suggerendo – o meglio sarebbe dire celebrando – la coerenza e la potenza del loro insieme, il loro aperto dialogo, il loro procedere sempre più in profondità verso il microscopico, l’interno, il corpo, la mente, l’emozione. Una vera e propria riappropriazione, che dall’artificio dell’algoritmo torna a ciò che è invece più intrinsecamente umano, razionale eppure emotivo, manuale eppure digitalizzato – visto, scelto e montato, pronto nel suo insieme a diventare altro e a trascinare via.
One thousand and one attempts to be an ocean delinea così le traiettorie di un viaggio multisensoriale, o forse sarebbe meglio dire un vero e proprio trip allucinogeno, che nel suo percorso dall’automatico all’umano non può che passare attraverso l’inesorabile. Da un lato il movimento ondulatorio sempre più furioso delle immagini e dei suoni, e dall’altro l’intrinseca entropia della loro frammentazione, che poi nient’altro è che lo stesso bombardamento di immagini – sempre più spesso vuote o per lo meno svuotate e riconvertite in altro messaggio – con cui l’informazione moderna passa attraverso social e piattaforme. Persino l’audio, altrettanto ipnotico e astratto nello straordinario sound design di Raphaël Hénard, nasce da un algoritmo prima progettato e poi (ri)controllato dall’uomo, usato per frazionare e ripetere all’infinito due frammenti di un codice sonoro tratto da una stazione radiofonica che trasmette voci e suoni bianchi per accompagnare la meditazione. Non più una parola, ma – un po’ come già il psicomimetico «destroy» del T,O,U,C,H,I,N,G di Paul Sharits – una sua minuscola parte da sola incomprensibile, che nei loop concentrici e nelle continue variazioni di ritmo sembra quasi comporre altre parole, altri suoni, altre ripetizioni, altri legami, altri desideri, altri moti ondosi liquidi e asimmetrici dai quali essere sballottati e nei quali perdersi. Come un’onda che cresce sino al picco della sua cresta, tutto travolge e poi inevitabilmente torna indietro nella sua risacca. Ma non torna mai davvero al punto di partenza, perché l’oceano non è mai identico a se stesso. In mezzo è giocoforza cambiato qualcosa, le acque si sono rimescolate, i sensi sono stati stravolti, e il quadro che apre e chiude il film è finalmente completo, dalla tela bianca al moto spumeggiante del mare. Sempre nuove gocce nell’oceano, che aspettano solo di lasciarsi trascinare un’altra volta nel suo moto ondoso e nel suo ritorno.
Marco Romagna