ONE SECOND (2020), di Zhang Yimou
Dura grossomodo un secondo, o forse appena qualcosa di più, quel One second in celluloide per il quale vale la pena fuggire, inseguirsi, mentire, minacciare, amare, lottare, farsi di nuovo portare via. Ma in realtà può bastare anche molto meno, per ritrovare il senso di una vita. Può rivelarsi in un solo ventiquattresimo, in un solo fotogramma, in una sola immagine rimasta intrappolata nella fisicità dolente di una pellicola (ir)rimediabilmente rigata, e ora ingigantita sullo schermo nel suo passaggio fra gli ingranaggi. Poco importa se sia parte di un film o di un cinegiornale nella Cina dei tempi della Banda dei Quattro, poco importa se sia una prima visione o l’ennesimo passaggio di una bobina che si conosce a memoria, quello che conta è guardarla, lasciarla entrare evocativa e potente, emozionarsi e sognare trepidanti di poterla riprodurre ancora, all’infinito, nel girare che si vorrebbe eterno di un proiettore. Un’esperienza (sempre) privata all’interno di quella pubblica, personalissima eppure condivisa da un intero paese in festa per l’arrivo mensile del cinema e disposto a mettersi integralmente a disposizione per salvare quel rullo trascinato per chilometri nella terra da un carretto. Tutti insieme a raccogliere la condensa per ottenere l’acqua distillata con cui lavare la pellicola che corre per tutti gli angoli del palcoscenico, tutti insieme a carezzarne dolcemente l’emulsione per far riemergere le immagini dallo sporco, tutti insieme ad asciugarla lentamente con i ventagli, «giusto una leggera brezza» prima di poterla riavvolgere e finalmente vederla squarciare il buio. Il racconto epico di una proiezione impossibile ridiventata immagine sullo schermo, eroica e commovente nello sforzo collettivo per rendere un rullo imbrattato e arricciato nuovamente proiettabile, una fiaba cavalleresca sulla partecipazione entusiasta di un’intera comunità. Festosi davanti e dietro il grande telo bianco dello schermo, seduti o in piedi sulle cassette di legno, rapiti dalle immagini a cantare insieme ai protagonisti del film o a commuoversi per l’apparizione fugace di una figlia che, condannati ai lavori forzati, si temeva di non poter rivedere mai più. Un frammento di cinegiornale dal valore sentimentale inestimabile, da vedere e rivedere, da montare e mandare in loop per i vari ingranaggi della cabina per tutta la notte, su un proiettore che nemmeno l'(in)evitabile arrivo dell’esercito, le risse e gli arresti potranno fermare nel suo ticchettio e nel suo continuare a girare.
Basterebbero le ombre dell’intero villaggio sullo schermo quando il bianco intenso del carbone illumina la sala, basterebbe il buon padre disposto a evadere, a viaggiare e a lottare contro tutto e contro tutti pur di vedere proiettati quei pochi fotogrammi di filmato governativo che ritraggono la sua bambina ormai adolescente, basterebbe l’orfana che invece brama almeno qualche metro del rullo per farne una lampada da restituire ai bulli locali, unico modo per proteggere l’indifeso fratellino dalle loro persecuzioni. Un’umanità dolce e straziata che emerge lentamente, in un film che inizia come una commedia slapstick di furti di pellicola, reciproci inseguimenti, cocchi in testa e ripicche, per poi virare progressivamente, con lo svelamento delle motivazioni, verso un dramma neorealista in cui inevitabilmente i due protagonisti non potranno fare altro che trovarsi, capirsi, dimenticare le iniziali incomprensioni e inimicizie per scegliere di aiutarsi a vicenda. Lui condannato con la scusa di una rissa ma in realtà perseguitato perché non sufficientemente allineato alla Cina post-maoista dei primi anni Settanta, un uomo disperato che chiede solo di poter rivedere almeno per un momento e su uno schermo chi ama, e lei che pare una ladruncola e invece è solo una sorella povera, preoccupata e altruista, una bambina costretta a crescere troppo in fretta e a trovare il modo per sopravvivere e per crescere il fratellino. Non è un caso che entrambi, mentendo mentre si trovano sul camion con cui reciprocamente si inseguono con in mano quel rullo che lei vuole rubare e che invece lui vuole assolutamente restituire al prossimo cinematografo del viaggio della pellicola come unica occasione per poter vedere quel secondo di cinegiornale, finiscano per dire la verità, per parlare di figlie strappate e di padri assenti, “facendo cinema” con le elaborazioni e con i leggeri scarti propri di ogni forma di racconto. Come non è un caso che l’Heroic sons and daughters (Wu Zhaodi, 1964) che viene proiettato bobina dopo bobina nella sala gremita parli in qualche modo di loro e delle loro storie, della loro necessità di trovare un affetto perduto, delle loro traiettorie fragili fra le storture di una società. Il cinema, del resto, nient’altro è che una raccolta di frammenti di vita, una sua eco, uno specchio in cui nel falso si riflette il vero, un racconto immaginato attraverso il quale esperire e raccontare il reale.
È probabilmente per questo che a One second, inizialmente annunciato in concorso alla Berlinale del 2019 e poi misteriosamente ritirato «per motivi tecnici» poche ore prima della prima proiezione, per poi uscire in patria nello scorso novembre e giungere soltanto adesso, nell’ottobre 2021, alla 16ma Festa del Cinema di Roma, sono serviti due anni (quasi tre, per il pubblico occidentale) per ripartire dopo uno stop forzato per il quale, questa volta, non poteva bastare un Mr. Film pronto in cabina a giuntare la pellicola, a rimetterla fra gli ingranaggi della macchina e a farla ripartire nel giro di pochi secondi, come quando durante la proiezione si brucia un fotogramma. Non solo per la natura digitale e quindi non fisica di un film che celebra la materia e il rimpianto un po’ feticista per il potere seducente dell’emulsione rigata attraverso la pulizia odierna del 4K, ma perché è sempre stato impossibile immaginare il blocco di One second realmente legato a un qualche problema dell’ultimo minuto. Semmai, non è affatto peregrino pensare a come il clima di paura e delazione messo in scena nella ricostruzione storica possa non essere piaciuto alla censura cinese contemporanea, con Zhang Yimou (una figura in genere, specialmente negli ultimi anni, non certo scomoda per il governo e infatti nel frattempo già indisturbato autore di altri due film) costretto a contrattare con le autorità i vari rimontaggi e rimaneggiamenti. Fino a quella coda tanto evidentemente posticcia, parzialmente riconciliante con l’uscita del protagonista dal carcere apparentemente libero dalle vessazioni della Rivoluzione Culturale, da sembrare girata e aggiunta a One second solo in un secondo momento, come l’obbligato compromesso per poter finalmente ottenere il nulla osta governativo alla proiezione. Anche perché, per quanto non manchi uno sguardo anche duro verso le angherie del potere di quegli anni (basterebbe la carognata gratuita pre-finale, in cui le guardie che stanno riportando via il protagonista gli buttano via i due fotogrammi con la figlia tagliati e regalati da Mr. Film, che da appassionato di fotografia avrebbe potuto ingrandire e stampare) il reale punto del film di Zhang Yimou non è quello politico. Quello che realmente conta, appaga e rimane è il cinema, è l’atto di guardare, è la potenza delle immagini come passione condivisa e come personale missione, come momento conviviale e come ragione di vita, e al contempo la loro caducità fisica, il loro rovinarsi, il loro sparire per sempre fra le dune. Quello dove, non a caso, un mai così misurato Zhang Yimou concentra tutta la sua enfasi visiva e spettacolare. Alla ricerca di una nostalgia, da qualche parte fra Nuovo Cinema Paradiso e i dettagli delle croci di malta sparsi per la filmografia di Tarantino, per quel cinema tattile e “antico” che viaggiava in bicicletta o su una moto rotta fra una sala e l’altra, vissuto come un rito e una grande festa da un’intera comunità, come un momento di gioia comune, di emozione e di umanità, come l’unico istante in cui riscoprirsi ancora capaci di piangere e non vergognarsene nemmeno un po’.
Marco Romagna