ZOMBIE CONTRO ZOMBIE (2017), di Shinichiro Ueda
Inizia con l’avvicinarsi parodistico e parossistico di uno zombie, One cut of the dead, per poi spostare a schiaffo l’inquadratura sulla bella, terrorizzata dall’avanzare del suo ragazzo ormai morto vivente, e infine allargarla sul piano a due del volutamente ridicolo e demenziale «Ti amo» con il quale la protagonista accetta il morso e il proprio destino. «Stop», e senza alcuno stacco di montaggio il regista esasperato irrompe isterico in campo, furioso con l’attrice non all’altezza, incapace di esprimere reale paura e sentimento, incapace di risultare credibile nemmeno al quarantaduesimo ciak. La sua spassosa intrusione nell’immagine e nel flusso del pianosequenza che continua e imperterrito continuerà con la sua pasta vistosamente digitale, televisiva e non troppo pulita della XDcam, al di là del primo (ne seguiranno diversi) cambio di piano narrativo e progressiva immersione nelle (tante e non poco intelligenti) stratificazioni teoriche che si nascondono fra le pieghe horror, comiche e demenziali di One cut of the dead, è un ribaltamento che, ben al di là del suo trasformare il “film” in “film nel film”, proprio mentre si ride di gusto sovverte quella che era la “soggettiva” dell’occhio cinematografico, ovvero la ripresa che il film nel film vuole portare sullo schermo, in un’inquadratura oggettiva sul metacinema che svela il set, l’atto di girare e la finzione. Siamo in una fabbrica abbandonata in un qualche isolato non-luogo del Giappone, dove la scalcinata troupe di uno zombie-movie a bassissimo costo non riesce in alcun modo a portare a termine quella che dovrebbe essere la scena madre del suo film, tanto che dopo l’ennesima sfuriata il regista, folle e disperato, decide di dare credito a una vecchia leggenda secondo la quale attraverso un rito di sangue sarebbe possibile riportare per davvero in vita i morti, finendo per scatenare una “reale” apocalisse zombie. Mentre il pianosequenza unico punto di vista continuerà a seguire lui e i suoi attori, e mentre i morti viventi attaccano il set, l’unico imperativo sarà continuare a girare alla ricerca del capolavoro. Ma, in un ritmo che corre sfrenato e splendidamente cinedelirante fra irresistibili “sgusciate pum”, attacchi di fronte e alle spalle, decapitazioni assortite, arti mozzati, sangue finto, cerotti che sembrano morsi, accette che «per fortuna» spuntano ovunque e (in)spiegabili istanti in cui la macchina da presa rimane ferma a terra mentre l’azione continua ai limiti del fuori campo, siamo solo al primo livello delle stratificazioni teoriche e metacinematografiche di un film di intelligenza e cinefilia tanto straordinarie da riportare alla mente il Sion Sono di Why don’t you play in hell?, i suoi discorsi fra finzione e realtà, fra cinema e vita, fra talento e passione.
Già dalle primissime battute, dall’uso del pianosequenza e dall’assurdo quanto geniale escamotage narrativo dei “veri” zombie all’attacco del set di serie Z che sospende l’incredulità in una miscela esplosiva di stilemi horror, irresistibile comicità parodistico-demenziale e centralità della riflessione sul cinema, appare evidente come il sorprendente esordio di Shinichiro Ueda, perfetto film di mezzanotte e probabilmente gemma più brillante del Far East Film Festival edizione numero 20, voglia spingersi ben al di là del mero intrattenimento. Tutto ha o avrà perfettamente senso, ma Ueda è estremamente intelligente a lasciare interrogativi aperti, apparenti stonature, campanelli di stranezza, che solo con il ritorno (o meglio con i ritorni) agli stessi momenti su un altro livello di realtà/finzione si espliciteranno nella loro densità di significati e nella loro piena coerenza narrativa. È infatti in un certo senso solo dopo mezz’ora, quando i (primi) titoli di coda chiudono con un traballante dolly il pianosequenza sul pentacolo di sangue dal quale si stagliano il titolo e l’unica sopravvissuta, che la narrazione torna a un mese prima consentendo quello che è il vero inizio di One cut of the dead. Messo ora in scena con una cura dell’immagine ben più certosina e con un montaggio decisamente più classico fatto di totali, campi e controcampi, il film riparte da prima dell’inizio, mostrando la genesi del meta-film e poi di nuovo la sua realizzazione da un diverso punto di vista, nel quale quella che era la troupe sono attori che interpretano la troupe coadiuvati nella realizzazione tecnica da un’altra troupe, filmata mentre filma come se fosse un backstage. Appare il (meta)regista, impegnato ora nella realizzazione di un mediocrissimo spot pubblicitario, quando giunge una produzione televisiva a proporgli, appunto, il progetto folle e quasi impossibile – tanto che qualsiasi cineasta più quotato ha già rifiutato nemmeno troppo cortesemente la proposta – di One cut of the dead. Tutto ciò che abbiamo visto fino a questo momento, con un nuovo ribaltamento di senso dell’occhio della macchina da presa in pianosequenza che torna in un certo senso “soggettiva” del film sullo schermo cinematografico, si rivela non essere altro che lo special televisivo, mezz’ora in diretta senza stacchi, commissionato al regista dal network. La fotografia e la pasta quasi amatoriali dell’immagine del film nel film (e di quello che di conseguenza è diventato il film nel film nel film) acquisiscono così senso filologico, visivo e narrativo, mentre il progressivo inoltrarsi in ulteriori livelli di finzione e messa in scena rivelerà, senza mai perdere un solo colpo nel ritmo e nella comicità, altri strati di finzione e messa in scena, altri trucchi, altri livelli metacinematografici, altri set nei set. I titoli di coda del pianosequenza, che giungono quasi ingannevoli dopo i 30 minuti di quello che si rivelerà essere la diretta tv «una sola videocamera, una sola ripresa», aprono alle altre due parti, totalmente differenti per stile e pasta dell’immagine, con le quali si ritorna al punto di partenza passando dal backstage di finzione, al quale a sua volta, durante i titoli di coda, seguirà un ulteriore livello, il backstage “reale” (o forse no) con cui fino alla fine tutto verrà rimesso in discussione.
È un geniale film sulla finzione, One cut of the dead, matrioska di livelli di messa in scena e di vero/finto che costantemente ricontestualizzano e danno nuovo senso quello che si è visto in precedenza impregnandolo di nuove e sempre più acute riflessioni sul cinema e sul set. Gli strati di rappresentazione progressivamente si disvelano in quanto tali e cadono, rivelando come la “realtà” non sia altro che (forse necessariamente) una nuova finzione, un nuovo livello di messa in scena che mantiene sempre al di sotto un’altra realtà più reale, ma forse mai completamente reale. Dal film si passa subito al set (di finzione) attaccato dai non morti, e al termine del “programma”, passando per il flashback dopo il quale, fra prove e momenti in famiglia del regista con la moglie e con la figlia, si ritorna alla fabbrica abbandonata e alla complessa rappresentazione da mandare in onda in diretta, dal set (di finzione) si passa al (primo) set del set, (apparentemente) “reale” nel suo disvelamento dei trucchi e degli imprevisti del pianosequenza – il regista e sua moglie in scena come sostituzioni dell’ultimo minuto di chi era malato, assente o ubriaco, il malore del direttore della fotografia causa del momento di macchina da presa a terra e del (non) apparente cambio di mano dell’operatore, gli istanti improvvisati per i motivi più disparati e spassosi richiesti agli attori dai cartelli che attiravano i loro sguardi fuori campo, le imperfezioni di un dolly improvvisato da una torre umana come sorta di omaggio definitivo all’artigianato e alla capacità di arrangiarsi del cinema fatto con pochi soldi e tanta passione –, ma che si dimostrerà invece ancora una volta pura finzione, messa in scena, “falso”, in attesa che solo il finale, rimettendo in scena per la terza volta e da un altro ulteriore punto di vista la recita dell’apocalisse zombie, possa finalmente giungere al backstage (forse) “vero”, senza più ulteriori messe in scena a fare da filtro. È la (dis)organizzazione del set, il principale e brillante spunto narrativo di One cut of the dead, ed è nel progressivo e potenzialmente infinito disvelamento della sua (ir)realtà la portata teorica di un film che, nell’omaggio e nella dichiarazione d’amore, ragiona sul mezzo ben più che sul genere, mettendo al centro la sua illusorietà, la sua capacità di raccontare bugie e tutto il piacere intimo e necessario di ogni spettatore nel crederci. Quale che sia il livello al quale si sta assistendo, perché in ogni “realtà”, per quanto possa essere pienamente convincente, ci sarà sempre un nuovo livello di finzione e messa in scena che la renderà impossibile, irrintracciabile, falsa. Forse ormai, in un mondo sempre più social e intriso di immagini, semplicemente inesistente.
Marco Romagna