ONCE UPON A TIME… IN HOLLYWOOD (2019), di Quentin Tarantino

Sta già tutto in un movimento di macchina. Cliff Booth, lo stuntman squattrinato interpretato da Brad Pitt, ha appena finito di accompagnare nella sua nuova villa su Cielo Drive, acquistata forse proprio nel tentativo di (ri)lanciare la propria carriera proprio a fianco alla residenza dei Polanski, quel Rick Dalton in cui Leonardo Di Caprio innesta una sorta di figura archetipica dell’attore mai di punta e ormai caduto in disgrazia, definitivamente prestato al 16mm in bianco e nero della serialità televisiva e sempre più spinto dal produttore Al Pacino verso Roma e la serie B dei suoi spaghetti western, percepiti dal protagonista così dozzinali e quasi insultanti di fronte alla magnificenza del cinema classico fordiano. Parcheggiata l’auto di lusso del suo amico e capo, temporaneamente senza patente a causa del suo gomito sempre più alto, Cliff risale sul suo macinino scassato per attraversare la Hollywood del 1969 inquadrato dal consueto e tarantinianissimo sedile posteriore, mentre, da buona controfigura asso del volante, sfreccia per le strade e per le insegne che si illuminano fino a quel drive-in cui vive nella sua modestissima roulotte. Al momento dell’arrivo di fronte al cinema all’aperto, la cinepresa di Tarantino si alza in un dolly vertiginoso, supera le pareti, entra dal buco del tetto e da lì si immerge fra le auto di chi guarda lo schermo, nella proiezione, nel fascio di luce che squarcia la notte. Un vero e proprio tuffo teorico nel cinema, in una realtà che è già finzione e che solo nella libera narrazione potrà tornare a essere Storia. Un lirico immergersi nella magia epica del racconto da cui farsi rapire e ri-plasmare, nel bagliore dell’emulsione che (ri)vive nel buio, e che nel buio, attraverso il ticchettio degli ingranaggi, riemergerà come una nuova luce di rinascita e di riscatto: il riscatto dell’uomo, il riscatto della Storia, il riscatto del cinema, il riscatto di quella lama di luce che sempre riempirà l’oscurità di un sogno. Partendo dalla sua crisi più soffocante, dal suo disfacimento, dalla sua morte. Perché per poter rinascere bisogna prima necessariamente morire, decostruirsi e ricostruirsi, constatare una fine e prendere nuove vie. Serve la morte della Hollywood classica ormai pronta a cedere il passo alla generazione degli Hopper, dei De Palma, degli Scorsese, degli Spielberg, dei Cimino, degli Altman, degli Allen, e forse ancor più degli Schrader di cui The Canyons sembra quasi il punto di partenza di Tarantino per questo film, quella morte teorica da superare in una nuova e altrettanto teorica vita. Serve la morte di una carriera, quella del Rick Dalton villain e mai protagonista escluso dalla ‘vera’ Hollywood ricca nota e festaiola, quella del suo doppio Cliff Booth ormai allontanato dai set per il suo comportamento e per il sospetto che in passato abbia ucciso la moglie, e ovviamente quella di Sharon Tate che la Storia e l’incubo collettivo del ’69 ci riportano massacrata all’ottavo mese di gravidanza dalla Manson family. Serve la morte del mito divistico incarnato da un Bruce Lee pronto a prendere sberle da uno stuntman qualunque fino a volare sulla fiancata di un’auto (non certo per caso di Zoe Bell, fedelissima controfigura tarantiniana sin dai tempi di Kill Bill trasformata in attrice feticcio già da Grindhouse) senza mai perdere un briciolo della sua aura e del rispetto che ogni maestro merita. E non certo in ultimo serve la morte del sistema, della società delle immagini che dal suo lusso proietta risate e avventure sullo schermo quasi come fossero una tenda con cui coprire i soldati spediti a svuotare caricatori sui civili in Vietnam, di quel mondo western che sopravvive(va) ormai solo sul piccolo schermo mentre quell’America polverosa e crepuscolare non poteva già più esistere, ormai infestata di paure, vecchi cowboy ciechi teledipendenti che non riconoscono più nessuno, solitudini, esclusioni, menzogne, dipendenze, lo stesso neonazista Charles Manson in giro per le strade come un inquietante mietitore e scene da ripetere svelando in un magnifico keep rolling il dispositivo fra un doppio carrello, l’intervento in audio del regista e lo sguardo in macchina dell’attore. Serve la morte di un intero linguaggio in immagini per poter rinascere in un nuovo linguaggio di nuove immagini, nella libertà della New Hollywood, nella controcultura che fra hippie, piedi scalzi e LSD diventava proprio in quei mesi Easy Rider, negli oggetti di scena come decisivo e infiammato mezzo per la rivincita individuale, fino al socchiudersi di quel cancello di una vita dorata (ir)reale, (im)possibile, e proprio per questo bellissima ma al contempo grondante malinconia. Ed è inevitabile che sia proprio il tanto disprezzato e vituperato cinema italiano di serie Z il decisivo ripartire (o forse partire) dell’uomo, dell’attore, del nuovo cinema. Della nuova Storia da raccontare. Di quella nuova e sempre attuale feticistica utopia chiamata immaginario. Di quel sublime e impossibile lieto (?) fine.

Perché è una dichiarazione d’amore lunga ventiquattro fotogrammi al secondo Once upon a time… in Hollywood, certo che lo è, ma è anche molto di più, è l’interrogarsi probabilmente mai così maturo e profondo di Tarantino sul cinema come morte e resurrezione, come narrazione e (anti)storicità, come emozione e redenzione, come ruolo e funzione di ogni sua parte, e soprattutto come mezzo che tutto può, che toglie, regala e restituisce, che racconta e che immagina, che abbraccia e che liberamente cambia. Non più, però, con la brillante e giocosa sfacciataggine di Inglourious basterds, in cui il cinema si permetteva quasi impertinente di rivoltare la Storia per uccidere – in un cinema e dando fuoco al nitrato – Hitler e Goebbels concludendo il tutto con il più spaccone dei «This just might be my masterpiece», ma percorrendo questa volta ancor più maturi e malinconici sentieri riflessivi, simbolici e per molti versi spiazzanti, privi o quasi delle consuete esplosioni di violenza (concentrata di fatto in una sola e furiosa sequenza nel prefinale) e dei bizzarri dialoghi pirotecnici che hanno sempre contraddistinto il cinema di Tarantino per concentrarsi piuttosto su una rete di continui input paratestuali attraverso i quali procedere verso una dolcezza infinita, inaspettata e quasi insostenibile. Quella del potere del cinema, quella della sua forza salvifica come rivincita dell’antieroe, quella dove si rimane come ipnotizzati, identificandosi, a piangere, a ridere e a vivere di immaginazioni. Consapevoli però che, per quanto sullo schermo tutto sia possibile, il cinema non ha mai davvero messo fine alla Seconda Guerra Mondiale uccidendo Hitler, ma che ciò che viene narrato sarà destinato a rimanere confinato sullo schermo, nella libertà del racconto, come una sospensione dopo la quale, prima o poi, bisognerà per forza abbandonare la sala cinematografica e ritornare alla (triste) realtà – «I try». Dalla morte alla vita passando per la dialettica, per il set, per il metacinema, per la scansione in atti, per una fiducia infinita nel mezzo, per il racconto: c’era una volta, e ricomincia la fiaba, ricomincia il mito, ricomincia il tempo secondo Quentin Tarantino – due giorni (o forse due ore) di morte e di riflessione, di spazi che scorrono come quinte mobili a disvelare il falso e l’ipocrisia di un mondo al tramonto, di interviste e di dolorose scelte, di incontri e di scontri, di sequenze montate che però sono un backstage, di incomprensioni e di partenze per l’Italia, e poi una notte di sei mesi dopo, QUELLA notte dell’8 agosto 1969 tutta da ripensare, o forse più semplicemente gli ultimi quaranta minuti dell’ennesimo capolavoro tarantiniano in cui esaltarsi e commuoversi non tanto per quello che accade e per quello che non accade, quanto per il come e per la purezza del perché gli avvenimenti, questa volta cronologici quanto splendidamente ucronici, accadono e non accadono. Cause impensabili per effetti straordinari, senza quasi la possibilità di “spoilerare” ben al di là di ogni possibile polemica e (discutibile) richiesta, e ben al di là della generale e sconcertante freddezza con cui questo film, non particolarmente capito, è stato accolto a Cannes. Già il titolo, del resto, è un perfetto intento programmatico. Da un lato c’è il richiamo alla fiaba classica, dall’altro al cinema di Sergio Leone che fra gli italiani con il suo C’era una volta il West è stato il più vicino al crepuscolo di Sentieri Selvaggi, dall’altro ancora alla natura di eventi passati degli elementi messi in scena, già accaduti e perfettamente noti, come a liberarli della necessità di ingabbiarli nel vero perché quello che conta non è un pedissequo ripercorrerli, ma semplicemente narrarli, re-immaginarli, farli propri. Ripensarli come un istante di sogno, di fiaba, di sublime cinematografico straordinariamente sospeso fra la gioia e il dolore. Come in questi ventisette anni di un gigante del cinema come Quentin Tarantino, dei quali porsi come summa, riflessione, al contempo testamento e punto di nuova partenza con un Once upon a time… che è rigorosamente in Hollywood, ma che proprio in quei puntini di, appunto, “sospensione” già innesta il primo granello di disillusione, la prima necessità di interfacciarsi con il “vero” (magari di una scarpa contemporanea che cammina per il set western a disvelarne ancora una volta la natura di finzione). Procedendo verso quel luogo (o forse non luogo) in cui tutti vivono, muoiono e rivivono nella finzione, quel luogo dove si può uccidere, morire e risorgere perché tutto è fantasia e messa in scena, quel luogo dove anche la Storia diventa racconto, esposizione, simbolo, sogno, teoria, meta-immaginario, risveglio dagli incubi (consapevolmente temporaneo, e proprio per questo così profondamente doloroso nella sua sconfinata dolcezza) nel caldo abbraccio della celluloide. Quel luogo rigorosamente in pellicola, fatto della gamma satura di colori e della morbidezza nei contrasti che solo l’emulsione può consentire e che nessun digitale potrà mai riprodurre, che cambia i formati dal 4/3 al 2,40:1, dal 35 al 16mm fino all’8 dei (falsi) backstage, e poi dal bianco e nero fino ai colori pastello che si inseguono e quasi si fondono. Quel luogo in cui Al Pacino fa il gesto del mitra come in Scarface, in cui Brad Pitt torna a casa atteso dal cane come in Se7en, in cui Leonardo Di Caprio si guarda allo specchio/macchina quasi ricalcando De Niro in Taxi Driver, in cui la Sharon Tate/icona di Margot Robbie va a vedere la vera Sharon Tate al cinema in The Wrecking Crew di Phil Karlson godendo con la grazia di una bambina del racconto, delle immagini e del godimento del pubblico di fronte alle sue capacità attoriali, e in cui il marito Roman Polanski, sorta di figura che con i suoi capelli al vento sulla spider unisce tutte le Nouvelle Vague (e tutte le persecuzioni) del mondo, incontra alle feste Steve McQueen. Quel luogo in cui le colonne sonore riemergono da Grindhouse e Kill Bill in un un Pulp Fiction definitivo di (auto)citazioni, dilatazioni e necessari tempi morti da riempire attraversando gli spazi, perché la vita del set è ripetitiva, noiosa, fasulla, ma solo il set può salvare l’uomo, il cinema e la Storia. Passando per l’altra parte dell’oceano e per il suo coerente fuori campo, perché pur nell’evidente omaggio al cinema italiano Once upon a time… in Hollywood vuole riflettere con forme perfettamente statunitensi sul cinema statunitense, e non avrebbe alcuna ragione di spostarsi dalla capitale di sogni losangelina. Ma non è certo un caso che siano proprio Sergio Corbucci, Giorgio Ferroni e Antonio Margheriti, fra false locandine e una moglie mediterranea con cui idealmente fare l’amore con il cinema(ccio) all’italiana, a (ri)lanciare una carriera, una mitologia, una vita, una Storia. O forse più d’una. O forse nessuna.

Si apre con il trailer del televisivo Bounty Law del quale Rick Dalton è l’antieroe Once upon a time… in Hollywood, con quella serie B che guarda alla Hollywood di serie A come a un miraggio, come a un sogno, come a quell’epifania di Roman Polanski e Sharon Tate che appaiono quasi all’improvviso giovani e bellissimi, palesando quella distanza che il protagonista, dai suoi ruoli rigorosamente negativi in produzioni sempre più basse, anela da sempre di riuscire a colmare. Un’apertura che è quindi in realtà chiusura, in attesa dell’apertura – fisica e simbolica – che chiuderà il film passando (ancora una volta dopo la liberazione di Django Unchained e l’esplosione di The Hateful Eight) per la natura selvaggia del West(ern) e per il giocoso labirinto cinefilo dell’inesistente Nebraska Jim di Corbucci interpretato da Dalton, quando Nebraska Jim, con Ken Clark, esiste realmente come titolo internazionale del Ringo del Nebraska di Antonio Román e del non accreditato Mario Bava. Come pure è un labirinto il vero cuore teorico del film con cui Tarantino torna dieci anni dopo nel concorso di Cannes, il “secondo giorno” del suo scorrere, centrale nel minutaggio quanto nella profondità. Quentin Tarantino lo mette in scena intrecciando nelle contemporaneità dei tre protagonisti e nella ormai consueta voce fuori campo che li accompagna tre diversi set, quello che è morto e ormai in mano a un branco di animali, con Cliff Booth impegnato a creare tensione horror accompagnando nello Spahn’s Movie Ranch un tempo set western e ora rifugio della Manson family la giovane e bellissima hippie raccattata per strada e accolta nella sua auto; quello che ancora (soprav)vive della luce riflessa del cinema che fu e che ancora cerca stancamente di ripetersi nelle forme e nelle reiterazioni, con Rick Dalton come sempre ubriaco di fronte alla macchina da presa intento a imparare il mestiere da una professionalissima bambina di otto anni dall’incespicarsi e doverla rifare al commovente «That was the best acting I’ve ever seen in my whole life» detto a chi forse per la prima volta è realmente riuscito nelle capacità comunicative del suo mestiere; e poi quello che è stato un set e che ora è semplicemente ricordo e base per il successo, gradimento del pubblico e sbigliettamento di un film che è già nelle sale e sta incassando, con Sharon Tate che, come anticipato, si bea della sua popolarità rivedendosi in sala, in un interfacciarsi fra “vero” e “finto”, fra “messa in scena” e “messa in scena della messa in scena”, che da solo contiene tutto il deflagrare della fiducia infinita che il cinema/racconto/immaginario merita, ma anche l’amarissima consapevolezza che la realtà (del personale del cinema che non la riconosce) non sarà mai realmente cambiata dalla finzione. Del resto il mestiere dell’attore parte dal nome del personaggio e lo immerge nell’abnegazione per vivere e magari modificare una vita altrui, e la sua performance è il grimaldello per far ridere, far sussultare, far emozionare e magari farsi applaudire in sala per un calcio volante imparato direttamente da Bruce Lee. Ma soprattutto l’attore deve saper fingere, deve essere credibile nella sua menzogna, nel suo raccontare, nel suo saper cadere senza farsi male. Deve saper fingere per essere altro, per vivere altro, per – anche lui, proprio come il cinema sul confine fra classico e nuovo – uccidersi e rinascere sotto altre forme, sotto altra identità, sotto altra vita, forse l’unica realmente possibile per avere un proprio posto nel mondo. Una vera e propria continua dicotomia, in cui anche la parata di stelle di Leonardo Di Caprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino, Michael Madsen, Samuel L. Jackson (più tutti quelli tagliati e che forse torneranno in un nuovo e più lungo montaggio post-Cannes, in testa Tim Roth) deve sottostare al suo mestiere, al suo accantonare la persona per dare spazio e vita al personaggio da interpretare. Così come deve saper fingere la narrazione, deve saper fingere l’immaginario, deve saper fingere chi fantastica e mette in scena il suo ennesimo California dreamin’ di false sequenze e costante mitologia con tanto di carrellate fordiane a seguire i cavalli sulle strade polverose che ancora emergono fasulle fra l’asfalto e i teatri di posa. Perché il cinema è stordimento, è sogno, è droga in immagini di amore e di feticismi (per la pellicola, per gli ingranaggi, e ovviamente per i piedi sui quali Tarantino ha sempre costruito un parallelo erotico fra le immagini e chi le guarda, mai così abbondanti e sporchi come in Once upon a time… in Hollywood). E non è certo un caso che tutti, a loro modo, siano storditi, drogati da un qualcosa. Che sia l’alcool nella fiaschetta, che sia quella sigaretta pucciata nell’LSD che al momento della resa dei conti rende straordinariamente fluidi i movimenti di un riscatto umano altrimenti impossibile, che sia la propria stessa popolarità, o che siano quelle immagini che attraverso le sale e i teleschermi giungono come un’ipnosi di morte, sopravvivenza e rinascita. Ancora una volta dalla morte alla vita, del cinema, di una carriera, di un sistema, di una società di immagini da rifondarsi in continuazione per mantenerla crepitante. Di quello che (non) accade, cambiando ancora una volta la Storia e riaccendendo la speranza, riaprendo uno spiraglio, schiudendo un cancello. O forse struggendosi di uno scarto malinconico e impietoso con la Storia, di un’amarezza dolorosissima e impossibile da lavare via. Ma non bastano, per fortuna, i titoli di coda per rientrare fino in fondo nella triste banalità del vero. Si rimane ancora lì, sospesi nel bagliore della fiaba, nel sogno, nello sguardo di Dio. Che poi nient’altro è che quello del regista, creatore di immagini e di racconti, creatore di speranze e di Storie. La (vera/falsa) vita è appena iniziata, e chissà quanti chilometri di celluloide serviranno ancora per raccontarla.

Marco Romagna