Per quanto sia affascinante che il nome più popolare del cinema filippino in Occidente sia quello di Lav Diaz, è di certo anche, in parte, ingiusto. Non perché i film del regista di Century of Birthing siano dimenticabili, anzi, sono delle visioni schiaccianti e uniche che diventano dei fardelli nella memoria del suo (ristretto) pubblico e che hanno sensibilizzato sulla storia del colonialismo nelle Filippine gli spettatori di tutto il mondo; bensì perché, come in ogni paese del mondo, nelle Filippine la rappresentazione cinematografica principale ha una forma più leggera, di genere, tra commedie, thriller e storie d’amore. Il cinema pop del paese. Erik Matti, classe ’70, ne è parte da decenni, ma il bagaglio che si porta dietro è perlopiù fatto da b-movie fantascientifici, parodie horror e intersezioni tra generi di sorta. Nel 2013 è arrivata la svolta, col thriller politico On the Job che ha avuto una sorprendente accoglienza occidentale, fino a essere persino distribuito a livello internazionale da Amazon. A esso sono seguiti film più o meno d’azione che hanno vissuto una più estesa distribuzione per un pubblico sempre contenuto, finché quest’anno non è giunta l’inaspettata notizia del sequel di On the Job nel concorso ufficiale della 78esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Una trovata geniale: in uno dei festival del cinema più importanti del mondo, dove nel 2016 prese il Leone proprio l’estremo Lav Diaz (con The woman who left) appena prima di 4 anni di fila in cui la vittoria è diventata una scelta politica per spingere titoli perlopiù americani (l’unica eccezione, più o meno: Roma) verso la Award Season degli Oscar, un altro film filippino di durata fluviale e ambiziosa (208 minuti), ma una visione più leggera, standardizzata, quasi “americana” appunto, adatta a praticamente qualsiasi tipo di pubblico. Forte di una sceneggiatura co-firmata con la compagna Michiko Yamamoto, già autrice del Norte di Diaz, Matti espande il mondo del precedente On the Job con The Missing 8, un’epopea dai ritmi mezzi filmici e mezzi seriali, che infatti avrà una distribuzione HBO-Asia in forma episodica. È già stato annunciato un terzo capitolo che unirà i protagonisti del primo film e quelli del secondo – a far tangere narrativamente i due è infatti praticamente solo una figura di contorno, il generale Pacheco, un militare implicato in una vasta ragnatela di intrighi che implicano i più alti ranghi dell’assetto politico filippino. Pacheco è colui che sta dietro il complotto, una figura larger-than-life che non può non vincere e le cui minime azioni mandano completamente a puttane, scusate il francesismo, le vite dei protagonisti di entrambe le storie.
Nel primo On the Job, era centrale la storia di un poliziotto che comincia a svelare parte dell’intrigo ribellandosi contro i suoi superiori, ma i veri protagonisti erano due carcerati, al centro dell’intrigo stesso, a cui un senatore ha dato la possibilità di una libertà parziale e di uno “stipendio” atto a migliorare la loro condizione di prigionia al costo di essere usati come “armi” per uccidere nemici politici in modo pulito e insospettabile. On the Job 2: The Missing 8 ha anch’esso due storie parallele, che si prendono i loro tempi per diramarsi e incrociarsi. Uno dei protagonisti è un popolare speaker radiofonico di regime, “lo Zio” (interpretato da John Arcilla: un’imprevista, coraggiosa Coppa Volpi) della città di La Paz, il cui sindaco (che lavora per Pacheco) lui supporta con conclamato lecchinaggio; l’altro è Roman, un carcerato che viene usato dal sindaco per eliminare le voci fuori dal coro che mettono in subbuglio l’ordine statale, che insieme ai suoi compagni di prigionia uccide il migliore amico dello Zio (direttore di LPN, il quotidiano di sinistra di La Paz), suo figlio e sei suoi dipendenti. Comincia l’indagine, in una progressiva convergenza tesissima che spesso sorprende tra duri colpi di scena e un’espressività degna del miglior cinema americano pulp, del ‘crime’ di Scorsese (Goodfellas e Casinò) e del Cimino de L’anno del dragone. Arricchito da una colonna sonora di rock filippino, The Missing 8 è anarchico negli intenti e ribelle nella forma, che avvolge lo spettatore in una struttura a imbuto in cui entrambi i protagonisti si separano sempre di più dalla loro ideologia di partenza. Anche le loro distanze e differenze diventano sempre più vicinanze e analogie, prima con montaggi alternati e poi con un climax attesissimo in cui finalmente si trovano nella stessa inquadratura – e il loro breve dialogo è l’unico possibile. Lo Zio, tra i due, occupa più tempo sullo schermo ed è più tragico e interessante: il film sembra voler raccontare come ‘la voce del popolo’ può perdere la sua voce, trovarne un’altra e riappropriarsene pur sacrificando tutto. L’azione e la violenza catartica del film sono relegate a scene brutali di attentati terroristici o a momenti in cui l’uomo agisce per conto delle proprie idee, rispondendo impulsivamente a se stesso invece che ai comandi dall’alto. La sceneggiatura di Matti e Yamamoto, con la sua vitale energia insubordinata a nessuno, è attratta appunto dal cinema americano ma soprattutto è capace di quella grandezza, ribaltandone i tempi di narrazione, che non sono mai sintetici ma sempre avvincenti, e aggiungendovi una carica anarchica anti-Rodrigo Duterte che rimanda alla sfera politica di cui conosciamo ormai bene la retorica insurrezionalista grazie al cinema ben più difficile di Diaz e di altri autori ‘non per tutti’ come Raya Martin.
È un film spudoratamente pop(olare), che si prende anche alcune libertà pacchiane nel raccontare il mondo dei media e nel difendere la libertà d’espressione, tra montaggi forsennati che esplorano il mondo dei social network e dell’informazione all’epoca del digitale. Ma soprattutto è un film sulla ‘verità’, sulla necessità di conoscerla e sull’impossibilità di averne una visione totale e completa. Come può del resto un’opera dagli stilemi tipicamente di genere e americani pensare di poter approssimare una visione di una ‘verità’ reale? Con piani sequenza, colmi di comparse in massa, coreografati come balletti violenti, e dialoghi satirici scoppiettanti ma dal sottotesto drammatico, The Missing 8 finisce per essere un macigno del cinema d’intrattenimento, un indimenticabile piccolo grande film che non annoia mai e che cerca un approccio immersivo all’interno di un complotto che sembra sempre più grande del film stesso. Lo Zio, da inetto della contemporaneità, diventa l’unico personaggio realmente eroico e rivoluzionario visto nel concorso di Venezia 78, ricco di protagonisti inetti, ridicoli o drammaticamente ambigui che non si evolvono con parabole ascendenti. Lo Zio ascolta Bella Ciao in Tagalog ed è pronto a macchiare la memoria del proprio migliore amico pur di svelare qualcosa ai suoi seguaci. La trovata più forte del film sta forse nella ripetizione, poco dopo l’inizio e poco prima della fine, di una stessa scena con modalità di messinscena e recitazione diverse: lo Zio entra nella villa del sindaco per partecipare a una festa. A inizio film, la scena è un piano sequenza con un pedinamento analogo a quello di Goodfellas, nella scena che vede Ray Liotta e Lorraine Bracco entrare nel ristorante di lusso arrivando dalle cucine, venendo accolti e salutati con festeggiamenti briosi finché non si siedono nelle prime file; lo Zio è qui privilegiato, amato dall’upper class, pronto per salire sul palco sorridendo e, con un numero di karaoke, confermare il proprio status, in contemporanea alla strage di LPN che affliggerà la sua vita dal giorno seguente in poi. Verso la fine, lo Zio è invitato a una festa con le stesse modalità, e la scena è girata con un piano sequenza sostanzialmente uguale, ma lo Zio non sorride più nei selfie che fa coi suoi fan, non parla con chiunque, è unidirezionale. Non sta mentendo né nella prima scena né nella seconda. È cambiato. Il mondo attorno a lui no, e nemmeno lo sguardo del regista, che si adatta allo spazio – è proprio cambiato lui. Qualcosa è stato svelato. E probabilmente è questo lo scopo principale della retorica di Matti, a prescindere dai filtri posti dal genere, ovvero portare nelle Filippine e soprattutto anche in Occidente uno svelamento che possa essere chiaro a tutti. Uno svelamento che viene da una voce del popolo.
Nicola Settis