“Credere di amare e sperare di essere amati”. Che cosa strana l’amore. Impossibile da definire anche forzatamente, inaccessibile presenza esterna e (tra)sognante di corpi che ancora non sanno di potersi appartenere, incorruttibile messa in scena dell’unica resistenza che noi tutti crediamo ancora possibile. Ildikó Enyedi tutto questo pare conoscerlo nella più pura accezione poetica, è emozionata, stanca e provata da una fatica durata anni, appena presentata e forse non ancora intimamente conclusa (perché si, nessun film può davvero considerarsi finito, figuriamoci un’opera del genere). Si era affacciata al cinema un quarto di secolo fa, quando il crollo di quel muro segnava la fine di un secolo tutto (ancora di più in Ungheria), e nasceva una naturale esigenza nel raccontarlo. My 20th Century fu (anzi è) una delle opere più seminali per comprendere cosa ci siamo lasciati alle spalle, un momento fondamentale per riavvolgere un nastro che ancora non abbiamo ben presente dove possa portarci. Un film sconvolgente, di destini e di storie, di frammenti così sottili da trascendere costantemente quel bianco e nero logoro ed arrivare fino a noi. In pochi ricordano quell’epifania, in pochissimi Tamás és Juli, altro capitolo splendido e sussurrato di una carriera sconnessa e silenziosa, ma che in questi giorni ha aggiunto un altro grande film, difficile da definire, metafora dei nostri giorni e apertura dalla flagranza commovente.
Dicevamo che l’amore forse non esiste, un po’ come il destino, la realtà, il cinema. E allora? Siamo in un mattatoio, lui ne è il direttore commerciale paralizzato a un braccio, burbero e solitario; lei è la nuova responsabile della qualità, perennemente assente, asociale, eterea. Siamo in un bosco cosparso di neve, due cervi si abbeverano alla fonte quasi congelata, un lui e una lei, si sfiorano, si guardano, si toccano. Il destino è unicamente uno specchio in cui i due piani si riflettono, e per un gioco della realtà (un’aggressione fuori campo, o forse un furto), sono i loro stessi sogni a sfiorarsi nell’altro gioco, quello delle parti, a cui entrambi devono rendere conto. Il cinema esiste per dare l’impressione a quell’amore, renderlo vivo nella liquidità dei loro corpi che ora davvero possono appartenersi, lasciando quel bosco ora spoglio e silenzioso, in attesa di altra neve pronta a cadere. La favola e la vita, la fiaba e l’esistenza: solo in sogno possono conoscersi, perché tra le mura geometriche del mattatoio il silenzio assordante della carne e del sangue copre tutto; solo nel bosco possono approcciarsi e crescere come anime esterne alla nostra società. Lui pare non (ri)conoscersi nel tentativo di razionalizzare la vita nel meccanismo perfetto di quella fabbrica di esecuzioni e lei si deve educare ai sensi, mima i suoi rapporti, li prefigura a tavolino, li memorizza nelle proprie strutture asettiche cognitive. Quando si accorgeranno della condivisione surreale delle proprie esperienze notturne sarà lei a stimolare il proprio tatto e il proprio udito, e dunque sarà lei che ne rimarrà ferita nella carne e nel sangue, proprio come anima da macello. Ma ancora una volta sarà proprio il cortocircuito perverso e polimorfo di destino, realtà e cinema a rivelare l’amore a lui, a renderlo presente e finalmente fisico. Della solitudine e della riconciliazione.
In concorso alla 67ma Berlinale, On Body and Soul (in uscita in Italia con il titolo Corpo e Anima) vive nel rilievo di un mistero primordiale, ne sviscera le più intime nudità, ne definisce le attrazioni e le suggestioni magiche di un sogno, un incontro, una possibilità. In tutto questo la Enyedi mostra un tatto unico nel rappresentare i silenzi, nel filmare con passione ogni mimica dei suoi ama(n)ti protagonisti, nel rispettare il germoglio di un conoscersi, l’embrione gelido di una comunicazione in divenire, la dialettica di un’incomunicabilità. Trasla la libertà dei due animali alla fonte con le difficoltà emotive e sensoriali dei due protagonisti, crea una complessa e reticolata sintassi di rapporti tra anima, corpo e mente che per gli stessi attori risulta inizialmente ostica da decodificare, struttura un sofisticato ma leggerissimo montaggio tra inconscio e reale nel cui labirinto loro stessi devono avere il coraggio di avventurarsi, prima che noi spettatori ne possiamo avere la possibilità. Infatti raccontare la verità di una amore è una cosa per pochi, per coloro che sanno amare disinteressatamente fino a farsi corrodere. Al di là della psicanalisi da commedia sentimentale e onirica, della digressione su fisicità abbozzate, scarnificate e/o imbarazzate nelle proprie ripetizioni ossessive, della messa in scena di un reale assordante e riflesso da interpretare attraverso una foresta di segni e simboli sempre più sottili, questo film respira il linguaggio più intimo dell’esperienza sensibile, e la tenerezza empatica dell’assenza in attesa di un’invocazione sospesa. Nell’epoca della superficialità più vorace e del consumo materiale di ogni rapporto, questa elegia di presenza ed essenze è il correlativo (s)oggettivo dell’umanità più radicale, e allo stesso tempo l’affermazione più pura del cinema come (significante) fabbrica dei sogni. Il risultato è straordinario e stordente, e On Body and Soul vibra come quel battito cardiaco che ti sveglia la notte, un pelo più forte e instabile, quando ti guardi intorno e credi davvero per un attimo di aver visitato un villaggio incantato imparando il significato della parola amare. E se proprio fosse così?
Erik Negro