OMELIA CONTADINA (2020), di Alice Rohrwacher e JR
«È una storia un po’ complicata, perché è fatta di cose, e non di pensieri. Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio. […] Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito. E comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare. Che bel cielo, vicino, felice. […] Guardati alle spalle, che cosa vedi? Forse qualcosa di naturale? No, è un’apparizione quella che tu vedi alle spalle. Con le nuvole che si specchiano nell’acqua ferma e pesante delle tre del pomeriggio. […] Solo chi è mitico è realistico, e solo chi è realistico è mitico. Questo è almeno ciò che prevede questa nostra divina ragione. Ciò che essa non può prevedere, disgraziatamente, sono gli errori a cui ti condurrà, e chissà quanti saranno. Ciò che l’uomo scoprendo l’agricoltura ha veduto nei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto, ciò che ha inteso dall’esempio dei semi che perdono il loro segno sottoterra per poi rinascere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva».
[il Centauro (interpretato da Laurent Terzieff) in Medea, 1969, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini]
Tra le proiezioni speciali della 77esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema della Biennale di Venezia, troneggia Omelia Contadina, la nuova collaborazione tra lo street artist JR e Alice Rohrwacher, la giovane regista italiana che forse più sta cambiando i presupposti del panorama contenutistico della settima arte nel nostro paese. Molti mal sopportano il cinema della Rohrwacher, lo trovano privo di genuinità, retorico, troppo spirituale e furbamente ricattatorio, ma la verità è che è la sua reale ed effettiva genuinità ad apparire retorica a chi non ne condivide il punto di vista, troppo spirituale a chi non è spirituale, ricattatorio a chi rifiuta di essere incluso nel discorso. Dopo l’analisi del rapporto tra l’infanzia e il sacrificio cristologico in Corpo Celeste, il racconto agreste e famigliare de Le meraviglie e la ricerca della meraviglia divina nel disastro del mutamento culturale/sociale della separazione tra classi in Lazzaro Felice, la regista cerca, nel gesto video-artistico collaborativo con JR, la possibilità di espandere perlopiù la riflessione del suo ultimo film, raccontando la fine dell’epoca contadina e il mondo in cui ha senso parlarne. Invece JR, reduce della collaborazione con Agnes Varda nel sublime Visages Villages (2017), ricomincia a percorrere il sentiero della sensibilizzazione sull’esistenza civile attraverso l’individuo, esaltandolo con gigantografie dei personaggi reali al centro della (non-)storia: persone qualunque, di cui esaltare l’identità per raccontare l’essenza del contesto attraverso le persone che lo abitano più che attraverso il contesto stesso. L’unione tra i due ci pone una domanda a cui in realtà non vogliamo sapere la risposta: è JR ad avere avuto in mente l’atto video-artistico e ad aver chiesto alla Rohrwacher di filmarlo o è lei ad aver fornito l’approccio contenutistico e ad aver pensato che JR fosse l’unico che potesse concretizzare il discorso, evoluto da Lazzaro Felice, in un gesto metaforico esplicito? Fattualmente, i due approcci all’audiovisivo si sposano in una manifestazione profonda e potente, dalla poesia visiva bucolica della Rohwracher che inquadra gli alberi sull’altopiano dell’Alfina vicino Viterbo dispiegarsi al volere della cinepresa aerea come un foglio che si piega su se stesso, fino al sintetico senso della rappresentazione per immagini di JR che posiziona le immagini ritagliate dei contadini come monumenti/documenti che aleggiano per i prati, trasportati dai contadini, in un’intensa marcia funebre.
Il gesto è palese, a partire dal testo recitato all’inizio, che cita Pasolini ne La rabbia (la parte virgolettata): «Un uomo saggio un giorno disse: “Quando il giorno classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e gli artigiani, quando non ci saranno più le lucciole, le api, le farfalle, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione allora la nostra storia sarà finita”. La nostra storia è finita». JR e la Rohrwacher, partendo dalla comunità dell’Alfina (e del cast di non-professionisti di Lazzaro Felice), partendo da queste parole e da altre sulla stessa scia («Per tutti quelli che non hanno avvelenato ciò di cui dovevano nutrirsi, preghiamo. Per tutti i contadini senza nome che hanno conservato i semi, che hanno costudito l’esperienza e l’hanno donata e non venduta al prossimo, preghiamo»), portano in scena un percorso funereo, che però non ha una messinscena funerea, anzi, non ha una messinscena. È, o perlomeno appare, come la visione esterna, oggettiva di un’azione-video che è concettuale senza essere cerebrale – un atto che è stato reiterato a Venezia sui canali tra le gondole, con la banda che suona, come a portare il verbo dell’era contadina nella borghesia istituzionale del Lido e del festival del cinema. C’è poco, invero, da commentare, al di fuori dell’essenza evidente dell’installazione, ovvero la messinscena di un decadimento rievocato con le parole, i volti, la fotografia e il cinema, o una sua apparenza, nella stessa azione univoca. L’unico approfondimento che ci pare corretto porre verbalmente consiste in quello che Omelia Contadina rappresenta, che appare come la morte di un’epoca, di una tipologia di vita, di un rapporto con l’esistenza e con la propria classe, ma che invece potrebbe apparire come una rinascita. I contadini dell’Alfina sono semi, come dice il vecchio fattore alla fine, e quindi sono destinati a rinascere, dopo essere sotterrati. L’atto fisico, materiale, tecnico della sepoltura è annullato dalla sensazione di quello che la sepoltura è, nel grande ordine delle cose, ovvero non l’ammissione della morte ma la rivoluzione materica con cui esprimere la vita eterna. Non c’è una glaciale assenza di speranza, anzi, va rievocato il soffrire senza il soffrire, il morire senza il morire; non bisogna inscenare o rappresentare, ma agire, portare nella terra, anzi, nella Terra, il cadavere cartaceo della persona viva, che continua a vivere. Bisogna innaffiare e far germogliare la memoria perché poi possa crescere la linfa vitale del mondo nuovo, un “mondo che verrà” che non è quello del film della Fastvoltd in concorso alla mostra, bensì è il mondo di una speranza applicata al mondo reale che può esprimersi solo in desideri irreali, che però con la performance sono più materiali di qualsiasi vezzo di rappresentazione. Perciò, l’arte performativa di JR è l’unica espressione concreta possibile per rendere reale il desiderio. Creare il funerale di un’epoca, di una generazione, di un’idea, e in ciò usare l’illusione della rappresentazione fittizia per dare forma visuale al riscatto, e non alla morte.
Nicola Settis