OLD (2021), di M. Night Shyamalan
Nel 2008, uscì l’ottavo film di Manoj Night Shyamalan, The Happening (titolo italiano apocalittico: E venne il giorno). Il regista, indiano di nascita ma “statunitense” per stile e produzione sin dagli esordi, all’epoca aveva smesso da anni di essere considerato uno dei grandi autori emergenti di Hollywood, a causa delle accuse di plagio che gli vennero mosse per Il sesto senso e The Village, che insieme a Unbreakable sono considerati i gioielli della sua prima parte di carriera. E dire che, all’inizio, giornalisti e critici lo accolsero con nomignoli come “il nuovo Spielberg” o “un Hitchcock favolista”; ma dall’horror fantascientifico Signs in poi, nonostante nessun suo film sia mai stato un fallimento commerciale, è stata messa in atto una rivalutazione collettiva del suo modus operandi, e, benché sia oggigiorno uno dei pochi registi a portare le persone in sala con il proprio nome più che con quello degli attori (e quanti sono a poter dire questo, a Hollywood? lui, Tarantino, Spielberg, Wes e PT Anderson, e poi?), l’occhio populista lo vede tendenzialmente ormai male. Perché? In The Happening possiamo trovare in parte la risposta: un film che il pubblico ha trovato ridicolo, mal recitato, un B-movie che si prendeva troppo sul serio, una premessa intrigante che però non diventa mai spaventosa perché inconcludente. Ma è davvero così? A rivederlo, c’è qualcosa di terribile che si nasconde sotto la superficie – in particolare nei nostri giorni in cui il terrore di uscire di casa è diventato concreto. Oltre quelli che potrebbero essere considerati dei dialoghi irrazionali o irrealistici, in una situazione che chiaramente non ha nulla di scientifico e decide di puntare sulla drammaturgia più costruita (e dunque sulla vaghezza), The Happening è innanzitutto un’odissea del timore per l’ignoto. Gli eventi della natura che non si possono fermare, né soprattutto inquadrare, e dunque razionalizzare. La macchina da presa di Shyamalan fa di tutto per cercare di convincere lo spettatore che il vento, gli alberi, l’ossigeno siano una minaccia; quello che spetta al pubblico è avere ‘fede’ che ciò sia plausibile, ed è qui che molti non si sono trovati convinti. Anche perché il film è uscito d’estate, la stagione dei film catastrofisti, e probabilmente in molti all’epoca si aspettavano un The day after tomorrow, un Cloverfield, e invece si sono ritrovati di fronte un film teorico in cui la storia è solo un contorno a quello che fa la macchina da presa, a quello che racconta – lo (s)cult status che è seguito negli anni è stato un contraccolpo, a cui è seguita lentamente una rivalutazione, anche se già all’uscita piacque a nomi di punta come Stephen King o Roger Ebert. Raccontare una storia su carta e raccontarla in immagini, per Shyamalan, sono due attività separate, con la dialettica si costruisce il lessico e con esso una serie di regole anche didascaliche all’interno delle quali rimanere – i riferimenti sono spesso i classici del B-movie e del thriller da Golden Age di Hollywood, o le fiabe, o le puntate di Ai confini della realtà –, mentre con la cinepresa sono ricostruite le angolazioni, i punti di vista, le spazialità con cui interpretare quello che sta accadendo, dando a esso la dimensione sufficiente per dare allo spettatore un’esperienza, un’immersione nell’idea. Detto questo, ci sono, per prassi, cliché in ogni cosa che fa: nella sceneggiatura ci sono sempre lo spiegone, il colpo di scena, l’aspetto spirituale/morale apparentemente anti-scientifico o anti-moderno, nella regia ci sono sempre il nemico fuori campo, un conflitto tra l’orrore che attacca (spesso) in campo lungo e l’umanità che reagisce in primo piano, e soprattutto una forte attenzione verso come conosciamo i nostri personaggi (indimenticabile l’introduzione di Bruce Willis nei titoli di testa di Unbreakable). L’immagine dà loro un valore espressivo maggiore, o comunque maggiormente comprensibile, rispetto a quanto c’era su carta – altra cosa che viene eseguita poco dagli autori contemporanei, che sono passati quasi tutti a un’autorialità più sfacciatamente personalistica, mentre nel cinema americano degli anni ’40, ’50, ’60, spesso era questa la prassi, avere dei personaggi che sono dei fogli bianchi e metterli in difficoltà. È lì, la chiave dell’immedesimazione, della creazione, dell’innesto.
Perché abbiamo parlato di The Happening? Probabilmente è il film di Shyamalan più simile a Old, e ciò è proprio perché il nemico è invisibile, le regole “non scritte” sono implausibili ma vengono enunciate in modo razionale, comprensibile e logico, scientifico o statistico da parte dei suoi personaggi. Shyamalan inquadra corpi e volti in modo parziale, viaggia per la scenografia della storia avanti e indietro dimenticandosi i personaggi, affidandosi a come nessuno di loro sia capace di “sostenere” la situazione, nessuno di loro è affidabile, ma tutti loro sono sinceramente umani. La trama: una coppia in crisi va in vacanza in un resort tropicale, portandosi dietro i figli, un maschio e una femmina. Il posto l’hanno trovato online compilando uno strano modulo che chiede una serie di informazioni personali incluse possibili malattie nei suoi ospiti. Dopo neanche due giorni di alloggio, vengono invitati dai direttori dello stabilimento, insieme a pochi altri eletti, su quella che è venduta come la più salubre e affascinante delle spiagge a disposizione. Quello che nessuno degli ospiti può sospettare è che si siano in realtà tutti ritrovati in un posto “stregato”, scientificamente e statisticamente illogico, in cui una qualche forza fa invecchiare tutti velocemente, creando numerose situazioni atroci. Innanzitutto, una serie di punti da tenere in mente nell’affrontare il tutto: l’idea non è di Shyamalan ma è tratta da Sandcastle, una graphic novel di Frederik Peeters e Pierre Oscar Levy, regalata al regista per la festa del papà da una delle sue figlie (entrambe collaboratrici del film: Ishana è la regista della seconda unità, mentre Saleka canta Remain, canzone pop che nel mondo del film è un singolo radiofonico), tuttavia nella sceneggiatura c’è un drastico cambio di finale che rende meno ambigue le motivazioni per cui sono tutti lì, uno Shyamalan-twist che sconvolge l’impalcatura del mondo dandovi più risoluzione rispetto al soggetto iniziale; Gael Garcia Bernal si è detto intrigato dallo script in particolare a causa del fatto che per ragioni inspiegabili e metafisiche non si possa scappare dalla spiaggia, cosa che gli ha ricordato le forze in gioco ne L’angelo sterminatore, una condizione esistenziale d’orrore più che un horror dalle tinte esistenziali; come in Lady in the Water e in parte in Glass, i dialoghi caratterizzano i personaggi in base ai loro ruoli (che corrispondono sempre a informazioni oggettive: la loro età, il loro mestiere, la loro malattia), creando un didascalismo forzato che convive con la macchina da presa, che invece racconta i suoi protagonisti con meccanismi di vedo-non vedo, lasciando trasparire altre cose, l’energia e la tensione della follia che li fa attirare, voler lottare, voler scappare, cose di cui l’esagerato linguaggio verbale non si accorge; e infine, essendo il nemico, appunto, invisibile, come in The Happening, l’orrore è affidato alla regia, al montaggio, al suono, insomma, alla forma. Come rendere un luogo idilliaco terrificante? Come aggirare una serie di buchi di logica nel comportamento dei personaggi in modo da creare immersione e non distacco? E cosa può voler dire fare un film che, in questo senso è “come The Happening” (o come Lady in the Water, un film quasi “di famiglia”), più di 10 anni dopo, in seguito alla (pur parziale) rivalutazione come autore da prendere sul serio da parte del pubblico generalista dopo The Visit, Split e Glass?
Il dibattito su Old non è troppo dissimile a quello che gli spettatori si pongono solitamente di fronte ai film di Shyamalan. Fino a che punto il fatto che tutto sia una fiaba che si affida al buon senso e alla fede dello spettatore può giustificare gli scompensi di credibilità del suo intreccio? In tutto e per tutto, Old corrisponde certamente a quello che ci si aspetta da un film di questo autore, la cui visione precisa nell’agire come storyteller cinematografico lascia spazio alla sorpresa ma si basa anche sulla ripetitività di certi standard che funzionano per il pubblico che richiede – l’idea di uno spazio circoscritto, per quanto all’aperto, una certa follia degenerativa nel dialogo e nelle azioni, una fantascienza drammatica che vira verso l’assurdo puntando sulle paure irrazionali degli uomini. In The Happening è la paura del suicidio, ma è anche la paura cosmica del mondo esterno, affrontata anche in The Village e in The Visit, il quale, invece, affronta la paura esistenziale della morte e della vecchiaia, che tornano anche qui. La regia di Shyamalan in Old è opprimente nonostante lo spazio sconfinato, ricorda in qualche modo la ritualistica alla luce del sole di Midsommar e anche la sua follia allucinatoria, che prevede l’incapacità di immedesimazione con la capacità d’azione del personaggio. Maddox (la figlia nella famiglia protagonista), quando diventa adolescente nel giro di poche ore, dice che i suoi pensieri sono diventati di più, più colorati, ma sono anche più sfumati e confusi. Il cervello comincia a cambiare, una cosa indescrivibile dal dialogo. Il tempo comincia a cambiare. Tante sono le panoramiche a 360°, a orologio, e le immagini memorabili, su tutte quella inquietantissima del medico che, diventando progressivamente demente, chiede alla madre appena morta di aiutarlo, mentre gioca con le di lei ossa che già stanno diventando cenere. Quando va sulle rocce, la cinepresa vola, si arrampica, si aggrappa ai dettagli, corre via spaventata con loro, con troppe forze in gioco, e un contesto che si lascia andare al grottesco. Quando è nelle buie caverne invece striscia, si accascia, fa zoom avanti e indietro, come spaventandosi e arretrando. Tutto ciò mentre una luce li guarda dall’alto. La luce di coloro che stanno mettendo in atto l’esperimento di cui loro fanno parte; ovviamente, qualcuno di legato al resort, e soprattutto sono un gruppo di persone, che sembra quasi una setta, che agisce di comune accordo “contro” la vita, come gli antagonisti di Glass o gli “originali” di The Village in un certo senso, credendo tuttavia in un “bene” comune. È un punto di vista, bisogna vedere il film per valutare in che direzione esso vada, ed è in un certo senso stavolta questo il colpo di scena, non una rivelazione di un nemico, o di una soluzione, o del mondo in cui siamo, o del “franchise” in cui siamo (in Split), ma il fatto che dietro tutto questo esercizio d’orrore metafisico, di confronto con il peggio e il meglio dell’umanità e tutte le paure che ne derivano, ci sia questo. A questo giro forse più che mai, oltre alla barriera formale che molti non riescono ad abbattere con Shyamalan ce ne potrebbe essere anche una ideologica, che comunque può aprire un dibattito interessante.
Dov’è l’orrore, che si cela, non si vede, ma c’è, da cosa è creato? Dove sono la tenerezza, l’attrazione, l’affetto, il magnetismo che porta gli esseri umani a ritrovarsi, da dove proviene? E dov’è Dio in un mondo così atroce? La risposta forse è nella luce in cima alla collina, nell’occhio divino che li spia, che altri non è che Shyamalan in uno dei suoi cameo migliori. Se in The Village era “il mondo esterno” e si vedeva solo in riflessi parziali, qua appare per la prima volta nello specchietto dell’autobus che porta alla spiaggia (rendendolo praticamente una specie di Caronte) e poi con la cinepresa in mano, a fare un resoconto di tutto quello che succede sulla spiaggia. È un suo errore di calcolo a permettere a Maddox e a suo fratello Trent di scappare dall’isola su cui sono invecchiati più di quarant’anni e in cui sono morti i loro genitori, pur riunitisi e re-innamoratisi gli uni degli altri durante l’avventura. È un deus ex machina quasi invisibile, anche lui, l’occhio voyeur in mezzo al cielo, nelle immagini che ha costruito per noi. È molto ironico, senza dubbio, anche considerato il suo stuolo di detrattori. Ed è anche ironico che sia così drammatico, poi, il succo dell’atto centrale del film; in sala molti ridono, perché è ridicolo. E forse lo è. Anche se ci sono persone che muoiono in modi tragici e le nostre paure sono enormi come la parete di una sala cinematografica, sono immagini grandi che ci dovrebbero spaventare, una premessa irreale che però trascina con sé una serie di momenti terrificanti in cui chiunque potrebbe ritrovarsi. Ma in sala, appunto, si ride. E allora divertiamoci. È spettacolo, comunque. Che sia questo l’esperimento?
Nicola Settis