Il Cinema Ritrovato di Bologna, festival che Peter Von Bagh ha diretto dal 2001 fino alla morte, lo scorso settembre, omaggia il suo storico curatore. Nella splendida cornice di Piazza Maggiore, risplende sullo schermo Olavi Virta, il film al quale il regista ed incallito cinefilo finlandese era probabilmente più affezionato, in grado di fargli abbandonare per molti anni, una volta ultimato, la moviola.
Nel 1972, anno di produzione del documentario, il cantante popolare Olavi Virta era poco più che un’ombra: stanco, grasso, devastato da anni di alcool e solitudine. Quasi dimenticato, dopo un successo che in Finlandia lo aveva portato ad incidere oltre seicento canzoni nell’arco di quasi trent’anni, fra il ’39 e il ’66. Anni fondamentali nella Storia del Paese nordico, prima schiacciato fra l’alleanza con Hitler ed i rapporti di buon vicinato con l’URSS, poi guidato da Mannerheim alla stabilità, e poi statico e forse dimentico delle proprie tradizioni.
Olavi Virta non guarda mai la macchina da presa, durante l’intervista, né l’intervistatore Von Bagh, si limita a fissare il pavimento, strascinando le parole come fossero macigni. Lui, che incarnava il benessere ed il successo nel dopoguerra, seduto e poi steso sul letto, in una squallida cameretta, a ricordare la gloria con gli occhi bassi, triste visione di un eroe decaduto. Ma lo sguardo di Von Bagh non è certo bacchettone, né tantomeno rassegnato: emerge il cuore del regista, capace di ergere il personaggio Virta a paradigma di quegli anni. L’intervista viene interlacciata con spezzoni di varia natura, brandelli di Storia estrapolati principalmente dai cinegiornali del tempo. Dal record di uova mangiate ai solenni funerali di Mannerheim, passando per i primi cenni di benessere economico, l’arrivo delle prime utilitarie, ma anche l’incedere del tempo. Le canzoni di Virta ci accompagnano in questo doppio viaggio, nella Storia e nella sua distruzione. Il film di Von Bagh ci parla di musica, di successo, ma anche di alcolismo, di stanchezza, di vecchiaia, di estrema povertà. E, principalmente, ci parla di abbandono ed indifferenza, quella subita da Virta nei dieci anni di declino ed alcolismo (la morte sopraggiungerà durante le fasi di montaggio, poco dopo le riprese), vittima dell’impassibilità nordica della popolazione pronta a scaricarlo. Difficile, a pochi giorni dalla triste scomparsa in povertà di Laura Antonelli, ultima di una lunga serie, non pensare ad una sorta di parallelismo.
Era una sorta di Fred Buscaglione finnico, Olavi Virta, espressione di un pop scanzonato quanto appassionato che spaziava dal tango alla traduzione di Guarda che luna. Poi, l’arresto nel ’62 per guida in stato di ebbrezza, e l’inizio della fine. Adesso Virta è chino davanti al giradischi, le mani tremolanti che tengono un suo vecchio vinile. Non riesce a trovare il foro sul disco, si convince quasi che non ci sia, poi arriva la moglie ad aiutarlo. Con fatica, viene mosso il braccio e finalmente, dopo qualche minuto di trambusto, la puntina tocca il solco. “Forse questo salta” dice la moglie “non so perché”. Virta torna a letto, si ascolta, si stende, chiude gli occhi. Sembra quasi essere tornato giovane, aitante, felice. Una scena quasi rubata, che Von Bagh filma da lontano. Una scena di una tenerezza ancestrale, quasi amara nella sua infinita dolcezza. Una scena davanti alla quale fermarsi, fare un respiro, e poi portarsela nel cuore per tutta la vita.
Marco Romagna