OFFICIAL FILM OF THE OLYMPIC GAMES TOKYO 2020 (2022), di Naomi Kawase
Vengono in mente le cesure fra le facciate invidia/scienza e potere/popolo immaginate da Fabrizio De André per Non al denaro non all’amore né al cielo e Le Nuvole, di fronte alla struttura del sorprendente film ufficiale delle Olimpiadi di Tokyo 2020 realizzato da Naomi Kawase. Un lavoro diviso in due facciate perfettamente distinte come quelle di un disco in vinile, Side A e Side B, da girare proprio come un concept album bifronte per spostare radicalmente i punti di vista da una parte all’altra dello “spettacolo”, fra il davanti e il dietro le quinte, fra gli atleti e la difficile organizzazione amministrativa, economica e politica di un’Olimpiade forzatamente dicotomica, a due volti. Come il 2020 in cui si sarebbe dovuta tenere se non ci fosse stato il Covid e il 2021 in cui ha effettivamente avuto luogo in piena pandemia con le sue porte chiuse e i suoi protocolli blindati, come lo scarto fra il dolce sapore delle imprese sportive in gargantueschi impianti deserti e il dolore impotente degli ospedali pieni fino alla saturazione, come le scelte obbligate prima di rinviare i Giochi e poi di doverli in qualche modo disputare contrapposte alle polemiche e alle continue proteste, anche dure, degli oppositori. Un totale di quattro ore, due per “lato”, con cui la cineasta nipponica si prende senza indugi la carta bianca concessale dal CIO realizzando un lavoro diametralmente opposto ai cliché del documentario sportivo e celebrativo, evidentemente lontano dalle intenzioni originali della committenza, e proprio per questo così straordinariamente innestato nella sua autorialità e nella sua poetica. Un film lirico e controverso, personalissimo e apertamente politico, che lascia lo sport e i suoi intrinsechi valori morali quasi ai margini del campo preferendo concentrarsi sui racconti di vita e sulle contraddizioni in seno all’evento, sull’umanità profondissima dei fallimenti in gara e sui momenti più scomodi delle fasi organizzative, e che riporta quasi a sorpresa Naomi Kawase, dopo una serie di sortite deludenti che negli ultimi anni avevano fatto temere avesse smarrito la sua ispirazione, verso le vette più intime e romantiche del suo primo cinema. Quello in cui conta più l’emozione dipinta su un volto che il gesto atletico che si sta compiendo, conta più un figlio da allattare prima della competizione (che, se le Olimpiadi si fossero regolarmente tenute l’anno precedente, la fondista Aliphine Chepkerker Tuliamuk in gravidanza non avrebbe proprio potuto disputare) che l’eventuale medaglia al collo, e conta forse ancor di più una sconfitta da cui rialzarsi (si veda il testimone caduto agli staffettisti giapponesi della 4×100 mentre l’Italia di atletica realizzava lo storico “capolav’Oro” di Desalu, Jacobs, Patta e Tortu) che una vittoria con cui entrare nella leggenda. Un film che agli allenamenti e alle gare preferisce le silhouette dei bambini che giocano in riva al mare e i tuffi nell’acqua salmastra da sempre elemento imprescindibile delle suggestioni cinematografiche dell’autrice, e che alla superficie delle lacrime e del sudore preferisce ragionare sul relativismo di un tempo che è insieme fugace (le frazioni di secondo che separano una vittoria da una sconfitta, ma anche la lunga attesa per un evento che dopo sole due settimane sarà semplicemente un ricordo e una serie di luoghi fantasma) e fatto di momenti cruciali, di punti di svolta, di epocali ingressi nell’immortalità e nell’icona con cui potenzialmente – come già Jesse Owens e i suoi quattro Ori vinti in faccia a Hitler nella Berlino del ’36, ma anche come Tommie Smith e John Carlos nel ’68 con i loro pugni chiusi nei guanti delle Pantere Nere – poter cambiare la Storia personale e di un Paese, con cui portare avanti le istanze comuni, con cui simbolicamente difendere la dignità di un intero popolo.
È probabilmente per questo che Naomi Kawase, molto più dell’omologo del ’64 di Kon Ichikawa apertamente citato con qualche estratto, ammanta Official film of the Olympic Games Tokyo 2020 di una giapponesità antichissima, fatta di fitte nevicate e di attori kabuki, di ciliegi in fiore e delle mosse più tradizionali del judo e del kata, dello spettacolo intrinseco della Natura e delle danze in costume e ventaglio, per ragionare sull’identità e sul senso di appartenenza, sull’incontro fra le differenze culturali e sui traumi condivisi, sui valori portanti e sul superamento delle barriere. In un percorso avanti e indietro nel tempo in cui ogni lato si focalizza su quello che la telecamere in mondovisione non hanno mostrato, alla ricerca tanto dell’umanità degli atleti quanto del cinismo politico di chi permette loro di gareggiare, tanto delle emozioni di chi suda e di chi gli sta vicino quanto del freddo e ipocrita calcolo economico che si cela dietro le quinte dell’evento sportivo, tanto dell’essere più intimo di chi ha di fronte l’occasione della vita quanto dell’apparire negli istanti celebrativi in mondovisione. Tanto della poesia nascosta nelle originarie 5000 ore di filmati, solo da selezionare e trasformare in narrazione, quanto di quella più ancestrale del Paese ospitante. Fra le specialità nate in Oriente e quelle invece di origine occidentale, fra gli atleti transfughi di guerra o di regime costretti a cambiare bandiera e quelli alla settima Olimpiade che hanno accompagnato il mondo dall’URSS all’Uzbekistan passando magari per un paio di partecipazioni “di gratitudine” per la Germania che ha fornito le necessarie cure a un figlio malato, fino alle nuove consapevolezze di una società nipponica non più disposta ad accettare un commento sessista, con il presidente del Comitato olimpico Yoshiro Mori costretto alle dimissioni e l’ingresso di dodici nuove donne in ruoli di vertice pochi mesi prima della cerimonia di apertura.
Passa tutto attraverso i primissimi piani dei volti, in Official film of the Olympic Games Tokyo 2020, presentato integralmente nelle sue due parti nella sezione Harbour del 52mo International Film Festival Rotterdam dopo la Side A curiosamente inserita come omaggio fra i Classici dell’ultima Cannes. Quelli degli atleti e quelli delle loro famiglie al seguito, quelli degli allenatori e quelli degli organizzatori, quelli delle autorità in riunione e quelli di chi scendeva in strada a contestare l’organizzazione di un evento così mastodontico durante un momento di crisi sanitaria globale. Primi piani a volte lirici e a volte grotteschi, a volte sognanti e a volte ironici, con cui Naomi Kawase racconta i Giochi dell’estate 2021 fra tedofori in corsa e salti nel tempo, fra sottolineature sornione di frasi e situazioni invecchiate male e il luccichio della medaglia d’Oro del karateka Ryo Kiyuna mentre i suoi occhi guardano commossi alzarsi la bandiera con il Sol Levante. C’è il judoka e profugo Saeid Mollaei che gareggia per la Mongolia ma non ha mai smesso di sentirsi iraniano. C’è il triatleta (ancora) siriano Mohamad Maso che ritrova il fratello nuotatore Alaa nella rappresentativa dei rifugiati. C’è la velocista afroamericana classe ’85 Allyson Felix che scioglie i muscoli nella tinozza e c’è la più giovane Gabrielle Thomas che proprio grazie a lei si è appassionata allo sport. Ci sono gli sguardi verso il canestro di Kim Gaucher e di Yuka Osaki, ci sono i volteggi sugli skateboard di Yuto Horigome e di Momiji Nishiya, e ci sono i guantoni e le mazze da softball di Monica Abbott e Cat Osterman. E poi ci sono i loro parenti, le mogli, i mariti e i figli al seguito, fra tamponi, pass al collo e accessi comunque vietati nelle sedi delle gare. Ma soprattutto c’è Thomas Bach, presidente del Comitato Olimpico Internazionale prima intervistato e poi seguito con interesse wisemaniano lungo il suo percorso di incontri, conferenze stampa, presentazioni e viaggi ufficiali per un mondo blindato, che rischia di perdere il suo aplomb nel (quasi) battibecco con un manifestante. C’è il già citato Yoshiro Mori, che prima ridacchia sulla sua necessità di arrivare ancora vivo ai Giochi rinviati all’anno successivo e poi, travolto dall’occhio del ciclone, sarà costretto a guardarli in televisione come privato cittadino. Ci sono i volontari che decidono di continuare anche l’anno successivo e quelli che invece nel 2020 decidono di abbandonare una situazione potenzialmente pericolosa. Ci sono i medici negli ospedali che scuotono la testa dicendo che «per questo virus non esiste cura», e ci sono gli oppositori che continuano a esprimere la loro contrarietà ai Giochi. E poi ci sono i volti oscurati, quelli dei pazienti che riempiono le corsie degli ospedali, così diversi dai sorrisi degli esponenti politici e dei componenti dei comitati organizzativi locali e internazionali, così drammatici nel loro contrasto con lo sfarzo della Cerimonia di Apertura che come il punto di partenza e di arrivo puntella l’intera narrazione del documentario. Un momento lungamente preparato per vederlo esaurirsi nelle poche ore di una diretta televisiva, transitorio come la vita ancora di più durante una pandemia. Eppure, in quei pochi giorni in cui la fiaccola rimarrà accesa e i Cinque Cerchi si uniranno ancora una volta nell’abbraccio fra i continenti, sembreranno non esserci più differenze, sembreranno non esserci più ingiustizie, sembreranno non esserci più dittature, terremoti, guerre, devastazioni. Solo lo sport, come una temporanea catarsi in cui rinascere e dimenticare l’orrore, in cui superare definitivamente le bombe di Hiroshima e il maremoto del Tōhoku del 2011, la centrale di Fukushima e gli tsunami. Solo lo sport, in cui almeno una volta ogni quattro anni ritrovarsi tutti insieme. Citius, altius, fortius.
Marco Romagna