Dall’action-movie al musical il passo è breve, soprattutto se a dirigerlo è uno registi più ipercinetici, attuali e coreografici del cinema degli ultimi decenni. Confonderlo “solo” per un esercizio di stile sarebbe cosa assai fuorviante: siamo di fronte a una delle opere maggiormente politiche del leggendario regista cinese. Come una sorta di controcampo umanissimo di The Wolf of Wall Street, Office è una clamorosa fiaba sul crollo finanziario della borsa del 2008. Se il film di Scorsese era perfettamente iscritto all’interno di quel filone crepuscolare di tanto cinema contemporaneo, Office è un film se possibile ancora più feroce, perché sotto la superficie luccicante del musical nasconde una rabbia, una violenza, una vitalità davvero inestirpabili.
Lo spazio, prima di tutto, è aperto: il gigantesco ufficio in cui è ambientato il film non ha vetri separatori, non ha barriere, solo linee orizzontali che si susseguono in una pirotecnica allucinazione al neon. Un universo geometrico, minimale, che ha fatto dell’immaterialità il suo stesso corpo. Movimenti di macchina vertiginosi ed elegantissimi disegnano geometrie astratte, danzando sinuosamente attorno ai personaggi.
Personaggi, del resto, condannati a essere pedine del gioco, ma ancora umani, in grado di soffrire, cadere, perdersi tra gli abissi stessi di un impero. Perché ogni società ha dei fantasmi nell’armadio: presidenti che nascondono relazioni con amministratrici, manager che perdono il controllo, nuovi arrivati ambiziosi che entrano a far parte del gioco e dimenticano chi erano stati. In un mondo dominato dalle velocità dinamiche della borsa (e dalle piroette del musical) i personaggi, paradossalmente, sono imbalsamati più che mai. A danzare è la macchina da presa che, contro ogni preavviso, ci suggerisce come batta ancora un cuore sotto il cinismo strutturale di quest’incubo capitalista.
Immaginate cosa sarebbe successo se Vincente Minnelli avesse incontrato Martin Scorsese e insieme avessero diretto un film sulla più grossa crisi economica della storia: la risposta è Office, o meglio la risposta è semplicemente, incondizionatamente Johnnie To.
Il film di To devia, sorprende, dilata i tempi della parabola per suggerire derive melò di un cinema d’altri tempi, per ospitare deflagrazioni continue dell’immagine, istanti densissimi di umanità perduta. E’ un cinema vivo, potente, pregno di rancore e risentimento, l’urlo disperato di un cineasta che non ci sta: ecco allora che sotto la conturbante eleganza della forma troviamo un grido di battaglia pronto a sollevarsi come la più politica, la più straordinaria delle canzoni. Come a dire: gli imperi economici continueranno sempre a sussistere, sono gli uomini che se ne vanno, pronti a essere rimpiazzati. Non rimane che il tempo per un valzer, poi si ritornerà ad affondare nelle velocità della borsa, fino alla più definitiva, terrificante immaterialità.
Il musical perde i suoi colori per trasformarsi nella coreografia asettica del digitale. Perché, in filigrana, Johnnie To già ci fa intendere che molto presto rimarrà solo uno spazio vuoto, un terrificante meccanismo indipendente, autosufficiente, completamente capace di andare avanti da solo. A scomparire saremo noi. Resterà allora solo un grande orologio, pronto a scandire tutto il tempo del mondo.
Samuele Sestieri