OCTAVIA (2018), di Yan Cheng e Federico Francioni
«Se volete credermi, bene. Ora dirò com’è fatta Ottavia, città-ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere i piedi negli intervalli o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone.»
[Italo Calvino, Le città invisibili, 1972]
È la terza volta che ci troviamo a confrontarci con i lavori di Cheng e Francioni ed è la terza volta che il prodotto audiovisivo di fronte a noi ci pare un reperto d’origine ignota, pseudo-UFO che trova nella sua italianità la chiave di lettura per la propria alienante assenza di idoneità nell’ambiente filmico odierno. I precedenti lavori, il mediometraggio Tomba del tuffatore (2016) e il lungo The First Shot (2017), sondavano rispettivamente la geografia italiana e la storia cinese, utilizzando il montaggio di immagini apparentemente scollegate per comporre video-saggi, tra la sperimentazione e il documentarismo, riguardanti ‘alma et corpus’ dell’inconscio audiovisivo; il nuovo cortometraggio Octavia, che è il primo lavoro della coppia di autori a essere basato sul montaggio di immagini d’archivio preesistenti, va in una direzione diversa, perché invece di basarsi sulla carne o sull’immateriale spirituale sembra andare più in una direzione direttamente subconscia, sovrapponendo le immagini o dando a esse tempistiche fuori dal comune per costruire un linguaggio dell’irreale cinematografico. Il montaggio digitale di immagini girate in pellicola sembra quasi una ri-attualizzazione di questo linguaggio, un ri-mettere in campo e in scena la ‘verità estatica’ herzoghiana di una serie di momenti filmici che senza questa seconda messa in scena sarebbero apparentemente sconnessi e vacui. Si parte con stormi di uccelli neri con un cielo bianchissimo, con una visione naturalistica che si rarefà fino a diventare pura forma, tramutando gli uccelli in scarabocchi alla Mirò; dopodiché, il tempo già comincia a piegarsi e a distruggersi con il primo exploit di montaggio, che mostra delle cascate, dei geyser e delle esplosioni andare all’indietro. Dopo che il mondo diventa astratto all’interno dello spazio del frame, non può che diventare astratto all’interno della timeline, convertendosi, rigirandosi su se stesso, tornando alle origini di un momento che poi diventano il flusso scomposto di un flusso imprescindibilmente confuso.
Qua, Octavia diventa una narrazione di una vita, quasi un film di formazione fondato sulla reiterazione programmatica dell’esistente. Tornare (eternamente) indietro innesca un nuovo inizio, un poppante che cresce, una donna-madre assoluta che si volta, più volte durante il cortometraggio, sorridendo in maniera solare che riempie lo schermo, una luce che passa attraverso dei tessuti. Giunge la natura ma anch’essa si scompone e si sovrappone, non solo al titolo del corto, che arriva 2 minuti dopo questo inizio, ma anche a se stessa. È come se i due autori abruzzesi trattassero ogni fotogramma e ogni inquadratura che si sono trovati a ri-utilizzare come se fosse l’ennesima ‘mise en abyme’ strutturale di Wavelenght (1967) di Michael Snow, un film che, difatti, piega il tempo su se stesso per viaggiare verso altri mondi complessificando la forma stessa dell’immagine filmica. Per Cheng e Francioni, forse, tutto ha una lunghezza d’onda, tutto può essere o diventare Wavelenght (o WVLNT, ri-montaggio curato da Snow a inizio anni 2000 che, come fanno gli autori, utilizza le dissolvenze per abbreviare il discorso e sovrapporre le immagini in un collage compattato), tutto apre finestre su ogni cosa o dentro ogni cosa. A due mesi dalla morte di Paul Clipson, membro del gruppo post-rock/noise Tarentel, non può comunque che venirci in mente il suo Hypnosis Display, funerale o direttamente autopsia della narrazione tradizionale del filmico attraverso la ripetizione ossessiva di dissolvenze incrociate tra mondi visuali e mondi visivi. Ma dove Clipson fa(ceva) collassare le proprie immagini nel baratro prolisso dell’onirismo con connessioni antitetiche, Cheng e Francioni, utilizzando immagini non proprie, trasportano verso altri mondi pur rimanendo legati a qualcosa di perfettamente comprensibile ai meccanismi automatici della psiche, quelli di cui parlava Breton. Ed è così che la sovrapposizione tra un gioco infantile e una foresta può sembrare un viaggio nello spazio, un tuffo può diventare un’esplosione amniotica attraverso la quale vedere sprazzi di edifici che non possono essere lì, delle luci ipercinetiche possono stabilizzarsi fino a formare l’onda descrittiva della vita di un paziente terminale, degli edifici possono creare l’immagine concentrata di una destinazione mentre a essi sono sovrapposte le immagini del viaggio, una nave può errare verso l’interno in simbiosi con un orizzonte composto da un sole arancione reale ma che così sembra divenire plastico come quello dell’excipit di Dillinger è morto…
E nel frattempo continua la vita, arriva l’adolescenza giocosa, l’amore, poi la guerra (carri armati ricoperti di linee da segnale video analogico, tra il Godard di Numero Deux e la Jane Arden di Anti Clock), lande aride, location hollywoodiane, mappature computerizzate, demolizioni edili, un’altra rinascita con un’altra madre uguale, in un loop esplosivo quanto cadaverico in cui il fluire lineare degli stadi della vita e della carne al macello smette velocemente di essere una certezza, lasciando tempo e spazio al cine-delirio e alla sua capacità di creare una propria logica. Una donna piange, e di lì il collasso dell’immagine su se stessa si fa evidente; Clipson e Snow diventano Jonas Mekas e Godfrey Reggio, le immagini continuano a essere due una sopra l’altra, ma una rimane lentissima e l’altra invece scorre velocissima, facendo fluire e andare avanti tante inquadrature di durata completamente diversa, creando un effetto sdoppiante ed emicranico quasi quanto quello del 3D biunivoco dell’Addio al linguaggio godardiano. Così, vediamo un inconscio culturale, che non smette mai di evolversi, manifestarsi attraverso il montaggio nel cervello di personaggi casuali, in un’unione irreale e improbabile creata unicamente dagli autori. L’ultima immagine della madre è la più lunga e pura, seguita da un’ultima immagine di bambini e da un’ultima immagine di palazzi sommersi nella nebbia, accompagnata da una voce che legge (in inglese) la citazione di Calvino messa in cima a quest’articolo. Queste parole, in inglese, diventano puramente globalizzate, americanizzate, inserite in una logica internazionale, come le immagini stesse, che mostrano molta America, molta vita, molta perdizione; che le due montagne scoscese che fungono da pali per l’equilibrio della città siano le due inquadrature che si sovrappongano? Che una non abbia senso d’esistere senza il bisogno dell’altra, ed è a questo punto che Ottavia, Octavia, respira a pieni polmoni e resiste come sforzo metanarrativo?
Ammettiamo, in chiusura, che Cheng e Francioni ci piacciono di più quando usano le proprie immagini, e in tali casi ci pare anche più consono scomodare i grandi nomi della storia del cinema, che qua ci sono serviti più che altro come coordinate analitiche per il significante; ma Octavia riesce nel comunque arduo compito di risultare originale e interessante in una breve durata, dimostrando come i giovani autori abruzzesi possano costruire un discorso politico ricco di possibili interpretazioni utilizzando, appunto, semplicemente le infinite potenzialità del mezzo del montaggio. È un primo esperimento d’archivio, dall’approccio quasi sinfonico, che potrebbe confluire in nuove esperienze, magari meno derivative, che potrebbero, in futuro, confermare i due come autori tra i più interessanti del panorama filmico odierno nello Stivale.
Nicola Settis