OCCHIALI NERI (2022), di Dario Argento
«Gli uomini dell’antichità avevano paura che le eclissi di sole fossero la fine del mondo». Una sensazione istintuale di angoscia e di terrore di fronte a un ignoto che ancora non si sapevano spiegare, un brivido di (ir)razionale turbamento, un panico ancestrale e profondissimo. Forse la stessa reazione animalesca dei cani che abbaiano impauriti, mentre in una Roma esangue la luce del sole si fa all’improvviso grigia, fioca, temporaneamente oscurata nel sottile cerchio di fuoco che circonda il nero della luna. Eppure l’eclisse di Occhiali neri non è solo il fenomeno celeste della sequenza di apertura, impossibile da non guardare anche a costo di abbagliarsi e irritare gli occhi. E non è nemmeno solo la metafora delle tenebre che invadono la luce, evidente simbolo della vista della protagonista che verrà persa all’improvviso per non tornare più. La più grande e profonda eclisse del nuovo lavoro di Dario Argento, con cui il regista romano partecipa – fuori concorso – per la prima volta in carriera alla Berlinale di cui fu giurato nell’edizione 2001, è probabilmente quella intrinseca nella sua genesi travagliata, nei vent’anni esatti che la prima stesura della sua sceneggiatura ha letteralmente passato in un cassetto di casa senza che nessuno o quasi se ne ricordasse nemmeno l’esistenza, e nel puro caso che l’ha fatta riscoprire pochi mesi fa alla figlia Asia, pronta a intuirne le potenzialità fino a convincere il padre ottantunenne a riprenderne le fila per trasformarla finalmente in quello che è di gran lunga il suo miglior film da parecchi anni. Era il 2002 quando, durante le prime fasi di location scouting, il fallimento della Cecchi Gori e la conseguente mancanza di fondi avevano finito per bloccare sul nascere Occhiali neri e il suo legame fra la prostituta d’alto bordo speronata, resa cieca e ancora braccata dal serial killer che l’ha presa di mira con il bambino rimasto orfano nella carambola del medesimo incidente automobilistico in cui lei ha perso la vista. Una crisi produttiva che ha portato il progetto ad arenarsi fino alla decisione di accantonarlo per concentrarsi su altro, tanto che in mezzo per Argento sarebbero arrivati Il cartaio, La terza madre e il tristemente meno lusinghiero dittico Giallo e Dracula 3D, prima di un silenzio autoriale lungo un decennio che aveva fatto temere anche ai più ottimisti, evidentemente a torto, che la vena del maestro del brivido si fosse ormai esaurita. Fondamentale per smentire chiunque è stato, come si diceva, l’intervento della figlia Asia, che al tempo della stesura ancora non era stata coinvolta e nulla sapeva dell’idea del film, ma che una volta ritrovato il copione ha (ri)messo personalmente in piedi e in moto la macchina produttiva, decidendo di ritagliare per se stessa il ruolo della volontaria e poi amica Rita, con quello della protagonista Diana che probabilmente le sarebbe toccato vent’anni fa lasciato ora alla più giovane Ilenia Pastorelli. Un po’ come se la luna si fosse finalmente discostata dalla sovrapposizione delle orbite e solo adesso il sole potesse lentamente tornare a guardare la Terra, o per lo meno a illuminarne uno schermo che il destino per troppo tempo aveva negato. Eppure forse è stata paradossalmente un bene la lunga eclisse produttiva di Occhiali neri, il suo essere stato girato e completato solo ora. Perché con ogni probabilità non sarebbe stato lo stesso (potenziale ultimo) film, vent’anni fa. Probabilmente non avrebbe voluto così apertamente riattraversare e rimettere in discussione, e per molti versi chiudere in una riconciliazione (?) emotiva, il cinema del suo autore, probabilmente non avrebbe alternato alla tensione gli stessi sprazzi di inaspettata tenerezza, probabilmente non sarebbe stato intriso della stessa abissale malinconia, del medesimo senso di liberazione e di commiato.
Sembra esserci una sorta di summa in filigrana delle ossessioni di Dario Argento, fra le righe di Occhiali neri. Quasi fosse un tentativo del regista, dopo mezzo secolo passato ad esorcizzare le proprie paure sullo schermo fra i capolavori conclamati della prima parte di carriera e la crisi creativa evidente degli ultimi film, di fare definitivamente pace con il suo immaginario. Tornando alla cecità che già dai tempi de Il gatto a nove code sembra trovare la sua unica possibile antitesi nelle immagini – e quindi per estensione nel cinema – che sono capaci di rimanere incollate alla memoria, tornando alle (im)probabili alleanze fra vittime che vogliono sopravvivere già cuore narrativo di Phenomena, tornando alla corda di violoncello, così simile al cavo metallico dell’ascensore nel finale di Profondo rosso, con cui il serial killer taglia la gola delle sue vittime fino al topos argentiano per antonomasia della decapitazione, passando per i cani – questa volta guida – che attaccano e sbranano come già in Suspiria. Ma l’omicidio, per Argento, ormai non ha più bisogno di essere l’opera d’arte di Tenebre, né il trauma risvegliato da un dipinto ne L’uccello dalle piume di cristallo, e nemmeno il soprannaturale delle paure più ataviche dell’uomo che si cristallizzava nella malvagità assoluta delle streghe che gestivano, ancora in Suspiria, l’accademia di danza di Friburgo. È semplicemente un qualcosa che accade senza motivo apparente nel totale brancolare nel buio degli inquirenti, un evento più o meno come gli altri con cui dover fare i conti. Specialmente se a morire è una puttana magari pure affetta da disabilità, «Dio non ha tempo per una come me», oppure una famiglia di stranieri fra le tante nella Chinatown romana dell’Esquilino. Come a dire che la vera malvagità alberga nell’indifferenza del mondo, in cui gli astanti accorrono a guardare una prostituta che muore dissanguata di fronte al vialetto di un hotel senza provare un reale shock, ma con la stessa curiosità morbosa con la quale guarderebbero una scimmia allo zoo, e poi ancora i cadaveri investiti col furgone e pugnalati alla schiena di due poliziotti che si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. È per questo che, in una narrazione il più possibile essenziale costruita su tre o quattro personaggi e un solo inseguimento, e in uno stile asciutto e volutamente lontano dall’estetica ipnotica e ipersatura delle vecchie “secchiate” di colore di Tovoli ma che non rinuncia alla sanguinolenta violenza dei sempre ottimi effetti speciali del fido sodale Sergio Stivaletti, a Dario Argento non serve più il whodunit da sempre alla base del thriller e del giallo, ma l’assassino si potrà tranquillamente svelare a metà film con una semplice telefonata e una leggera panoramica della macchina da presa: non è la sua identità che conta e forse non serve nemmeno che abbia una reale motivazione per uccidere, ma basta il suo istinto, basta la sua ferocia, basta la sua pericolosità che poi è quella di tutto il mondo, degli uomini, degli animali, della società, di una natura fatta di liane, fiumi e serpenti. Quello che davvero conta, in Occhiali neri, è la tensione del sentirsi braccati, è la pressione costante dell’incubo, è un odore di cani e di morte, è un’inquietudine, la stessa di Edgar Allan Poe, ben più profonda e radicata della paura. Quella di Diana, costretta alla fuga dalla città per spostarsi prima nella natura altrettanto atterrente e ostile delle campagne vicino Formello e poi in una vecchia casa cantonale dell’Ente Dighe, che si ritrova senza più alcuna coordinata né punto di riferimento nel suo buio ma non smette nemmeno per un momento di preoccuparsi per il piccolo Chin, in un drammatico trovarsi fra outsider totalmente soli che diventa un reciproco aiutarsi, un’intesa, una fiducia, un parlarsi, una lotta da affrontare insieme, quasi in simbiosi, badando l’uno alla salvezza dell’altro. Del resto Diana, aiutata dal suo iperprotettivo e addestratissimo pastore tedesco di nome Nerea e dall’intelligenza brillante di un bambino cinese che vuole sostituire i suoi occhi, non può portare il nome della dea della caccia per essere una semplice preda. Al contrario non potrà che combattere, fino all’ultimo disperato vagito di umanità da opporre al disumano, fino all’ultima gabbia rotta, fino all’ultimo morso, e poi fino all’ultimo addio in aeroporto, l’unico distacco senza morte né traumi eppure forse il più doloroso e malinconico. «Sei l’unica amica che mi è rimasta», sussurrerà dolcemente a Nerea, mentre la cagna la conduce sicura fra la folla. E non è forse esattamente questo il grande cinema? Non è forse esattamente questo che si sperava che Dario Argento tornasse a fare, senza che nessuno a parte sua figlia osasse chiederglielo? Non è forse esattamente questa la sensazione di ritorno della luce quando finisce un’eclissi?
Marco Romagna