O QUE NĀO SE VÊ (2020), di Paulo Abreu
Sosteneva John Ford che i tre soggetti in assoluto più interessanti per una macchina da presa fossero un cavallo in corsa, una coppia danzante e una grande montagna. Tre potenziali protagonisti silenziosi, seducenti, magnetici, in grado praticamente da soli di apparire nel campo di un’immagine e trasformarla istantaneamente in cinema, ma forse in qualche modo ancora più affascinanti quando si celano nei limiti del fuori campo, nella visione solo parziale, nei ricordi, nei sogni, nella necessità di tornare a usare la memoria e l’immaginazione. È la cima vulcanica del Monte Pico O que não se vê, letteralmente “ciò che non si vede”. Una punta alta 2351 metri, vetta più imponente delle Azzorre spesso nascosta alla vista, quasi a proteggersi dagli sguardi dei turisti e delle macchine da presa, da una spessa coltre di nubi. Ma “ciò che non si vede”(va) è anche, e forse soprattutto, un film che si pensava ormai abortito, abbandonato, e che invece era già lì, nascosto nell’archivio dei sopralluoghi, fra le immagini e le chiacchiere girate fra il 2015 e il 2016 durante quel location scouting fra Pico e Faial che sembrava non aver portato a nulla.
Serviva solo un’intuizione perché le immagini in archivio si evolvessero e diventassero altro, perché O que não se vê, presentato in prima mondiale nel concorso pesarese edizione 2020, si palesasse quasi per caso agli occhi del suo autore. Serviva solo riguardare il girato perché il film ancora invisibile prendesse forma e si stratificasse quasi da solo in quelle immagini e in quelle parole, catturate in quegli istanti di ricerca e preparazione per un progetto mai portato a termine. In quel materiale non c’era più l’idea originaria del regista portoghese Paulo Abreu, che voleva inizialmente realizzare una sorta di seguito ideale del suo mockumentary Raimundo con una pellicola da attribuirsi al fittizio e controverso autore Raimundo Bicudo, ma è emerso un film straordinario sul senso più intimo e sulle forme del cinema, sul caso e sull’affiatamento, sul fallire e sul ritrovarsi, sull’inquadratura e sulla pasta dell’immagine, sulla ricerca del punto di vista e sulla passione senza la quale nulla di tutto questo avrebbe senso. Ma soprattutto sulla malinconia ripensando a un amico e collaboratore che non c’è più. O que não se vê non solo mostra ancora in vita João da Ponte ed è dedicato alla memoria di João da Ponte, ma è un film per João da Ponte, fedelissimo sodale di Paulo Abreu nel doppio ruolo di produttore e attore. È un film che esiste solo per lui, per ricordarlo, per rivederlo, per rivelarlo, per sentire ancora la sua voce. Per fargli interpretare per l’ultima volta Raimundo, il tempo di una sigaretta con la dolorosa Vocês sabém lá di Maria de Fátima Bravo che risuona dall’autoradio, gli occhi che si fanno sempre più lucidi, i titoli di coda di un film e di una vita. Un ultimo commiato per quell’uomo entusiasta, sregolato e un po’ ipocondriaco che aveva paura di volare su un aereo troppo piccolo per timore di avere un attacco claustrofobico, ma che anche quando rimaneva ben saldo sulla terra mandando in avanscoperta a Pico e Faial solo il regista con il direttore della fotografia Lee Fuzeta era sempre presente, in ogni discorso, in ogni pensiero, in ogni confronto, in ogni quadro e in ogni movimento di macchina, in ogni imprecazione per la ripresa rovinata da un’auto in corsa o dai troppi giorni consecutivi nuvolosi ben oltre il limite della visibilità, o ancora dalla mandria di vacche che all’improvviso ingombra la strada rendendo temporaneamente impossibile passare oltre.
C’è la ricerca delle migliori visuali possibili, il più possibile lontane dalle cartoline, da cui mostrare l’imponenza del Monte Pico. C’è lo studio dei luoghi, c’è la riscoperta della luce naturale e dei colori, ci sono i momenti in camera car da rallentare e le inquadrature fisse sulle nuvole da far correre in time lapse lungo i pendii. C’è la pioggia che si intravvede battente in lontananza, ci sono i raggi di sole che filtrano attraverso la tempesta, ci sono albe e tramonti, e ci sono i lens flare come illusioni ottiche che ricordano quegli UFO così cari al bizzarro personaggio di Raimundo. Ci sono i rami che sporgono sulla strada e le ciminiere sullo sfondo, ci sono le riprese notturne a 25600 ASA e ci sono le radicali divergenze d’opinione sulla possibilità di usare un drone, e poi c’è il super8, idea estetica di Abreu per un documentario sul Pico ma anche momento della definitiva convinzione di non avere abbastanza materiale, e di dover tornare sull’arcipelago per altri sopralluoghi e per altre riprese. Ci sono i giorni sprecati senza ottenere nulla, ci sono i testi da far interpretare alle voci impostate degli attori, c’è l’addensarsi e lo sparire delle nuvole a cambiare atmosfera, e quindi genere cinematografico. Ma O que não se vê, per quanto nasca dal luogo, diventa inevitabilmente e sin da subito un film sul tempo, sull’istante, sull’imprevisto, su ciò che è cambiato dagli anni delle riprese e sugli sprazzi più o meno effimeri di bellezza che si dischiudono all’improvviso, e che magari solo pochi minuti dopo possono essere inghiottiti dalla nebbia e sparire per chissà quanto, forse per sempre.
È un film sul cinema, che parte all’avventura in volo verso la montagna e che progressivamente si permea di agrodolci crepuscoli fordiani; un piccolo gioiello metacinematografico e teoricissimo su come il caso diventi parte integrante e fondamentale di qualsiasi processo artistico e creativo, su come un’inquadratura acquisti senso solo quando un uccello attraversa il campo, su come non serva necessariamente capire tutte le parole di una poesia per trovare nella dolcezza del suono il loro senso, su come un’indicazione stradale sbagliata possa aprire o chiudere un mondo. Su come la pianificazione più certosina, quando sopraffatta dalla natura, possa portare al nulla, mentre una riscoperta del girato e una riscrittura sul tavolo di montaggio possono portare sullo schermo un film che non si sapeva di avere fatto, in cui tutto può diventare narrazione, e in cui la narrazione parte dalla pre-produzione del cinema per diventare metafora di vita o di morte. Ma soprattutto O que não se vê è un vero e raro film di cuore. Un film su, con e per una persona cara. Alla quale – è evidente, e di una sincerità straziante – Paulo Abreu ha voluto realmente bene. Una persona da riportare in qualche modo in vita, almeno su uno schermo, almeno per ventitrè minuti. Non una resurrezione dreyeriana, ma il suo ideale controcampo: la possibilità di commuoversi ancora una volta come tenerissimo dono d’addio. Solo quell’eterno miracolo che è il cinema può restituire la vita. Più potente del destino, più potente del dolore. A ben pensarci è la sua forza più grande, preziosa, toccante. Probabilmente il principale motivo per cui così tanto lo amiamo.
Marco Romagna