O ORNITÓLOGO (2016), di João Pedro Rodrigues

In principio era Sant’Antonio. Da Padova, o meglio da Lisbona, città in cui nacque e della quale è Santo patrono. Oppure, forse meglio ancora, in principio era Fernando, che trovò la fede e diventò Sant’Antonio dopo un lungo percorso di dolore e scoperta. A quattro anni dallo splendido A ultima vez qui vi Macau, con in mezzo un paio di cortometraggi, il cineasta portoghese João Pedro Rodrigues torna alla regia di un lungo, questa volta in solitaria – il fedele compagno di vita e storico co-regista João Rui Guerra da Mata lo affianca “solo” alla sceneggiatura –, portando in concorso a Locarno 2016 un film allegorico e simbolista, iconografico e scherzosamente blasfemo, nel quale il percorso grottesco dell’ornitologo Fernando – O Ornitólogo, appunto – verso la santificazione diventa decalogo delle ossessioni del regista, della sua dichiarata omosessualità, del suo profondo misticismo ateo ai limiti dell’eretico. È un progressivo inoltrarsi nel surreale, dal quotidiano del telefono cellulare all’atemporalità dell’allegoria, in un viaggio lungo il fiume alla ricerca della propria natura più intima che parta dai pasoliniani Uccellacci e Uccellini a cui parla Fernando dalla sua canoa per arrivare all’onirismo mistico e beffardo di Buñuel, fra rimasticamenti spudorati delle iconografie cristiane e riletture libere e metaforiche degli episodi di vita del Santo.

O Ornitólogo scivola dolcemente sul fiume, il binocolo al collo, la pagaia saldamente nelle mani. Osserva gli uccelli, li segue, sembra quasi ricevere in cambio segni di saluto, in soggettive dello studioso e controcampi lunghissimi che Rodrigues risolve in voli di droni sulla piccola imbarcazione e sulla natura già profondamente francescana di chi la governa. Il regista lusitano, da Il fantasma a Venezia nel 2000 in poi, ha sempre rivisitato gli stilemi del cinema portoghese inserendo le più classiche voci fuori campo a macchina fissa in un’altrettanto classica narrazione ellittica e riflessiva, che virasse però le modalità narrative della gloriosa tradizione figlia di De Oliveira verso un personalissimo cinema di genere, dal thriller al fantastico, sempre profondamente umano e intriso di un’aura fantasmatica e intima che sapesse far sgorgare nuova e moderna linfa dalla ieraticità visiva e dalla verbosità poetica. Stavolta, al contrario, la messa in scena di Rodrigues procede sin da subito in direzione diametralmente opposta, eliminando del tutto la voce over, riducendo la parola all’osso in virtù dell’immagine, optando per movimenti di macchina ariosi e per un montaggio piuttosto serrato. È una sorta di variazione sul tema del western, l’incipit del film, giocata sugli sguardi fra l’uomo e l’animale che portano Fernando a non accorgersi in tempo delle rapide; è il realismo a noi vicino dell’equipaggiamento di Decathlon e dell’iPhone, pronto a immergersi sempre più nel grottesco meticciandolo con il misticismo; è il puro talento visivo e narrativo di Rodrigues, forse mai così poliedrico ed efficace.

Fernando, dopo l’incidente, verrà salvato da una coppia di donne cinesi in cammino per Santiago – un cammino di fede che incontra un altro cammino di fede – che si riveleranno però lesbiche militanti, possessive e distruttive. Lo legheranno a un albero come un novello San Sebastiano in attesa delle frecce, o in questo caso delle forbici, odiandolo e quasi facendolo sentire in colpa per il proprio sesso. Riuscito a liberarsi, O Ornitólogo troverà una parte spezzata del suo kayak piantata in mezzo a un cerchio sulla spiaggia, per poi assistere nottetempo e di nascosto a un rito pagano intorno al fuoco, anticipazione di un percorso di delirio che è al contempo autodistruzione e scoperta di se stessi. Fra amazzoni a cavallo e assenza di copertura sulla rete del cellulare, sarà decisivo l’incontro (intimo) con il pastorello sordomuto che non certo a caso si chiama Jesus, Gesù: il sesso o la fede, il sesso e la fede, il sesso è la fede. Solo scoprendo la propria (omo)sessualità, e più in generale la propria natura, Fernando può realmente iniziare il proprio percorso catartico verso la trasformazione in Sant’Antonio, ma per rialzarsi è prima necessario cadere. Rodrigues mette in scena il corpo e soprattutto il sangue di Cristo, il destino, l’errore, l’orrore, l’omicidio, la colpa, fino alla rinuncia da parte di Fernando a se stesso, con i documenti simbolicamente affidati allo scorrere del fiume e le impronte digitali dolorosamente cancellate con il fuoco in attesa di una trasfigurazione che è anche una transustanziazione: perché Fernando possa finalmente diventare Antonio, e perché il volto del protagonista Paul Hamy possa diventare quello dello stesso João Pedro Rodrigues riassumendo nell’atto creativo del cinema tutto il percorso di santificazione, serve prima che la fede sostituisca il rimorso, serve prima che il dolore diventi gioia, serve prima che torni, resuscitiando dalla morte, Jesus.

Ecco quindi il corpo di Cristo di nuovo riverso a terra, il costato ancora sanguinante, le dita di Fernando che, con la curiosità di un morboso San Tommaso, penetrano nella ferita. Il nuovo esplicito riferimento sessuale sveglia il ragazzo, che questa volta può parlare, si chiama ovviamente Tommaso e altrettanto ovviamente è gay e felice. È giunto il momento di presentarsi alle porte di Padova: insieme, saltellando felici, sorridendo, tenendosi per mano. Perché O Ornitólogo, nell’accostamento giocosamente eretico che ci suggerisce come la vera fede sia l’omosessualità, o comunque come l’illuminazione non possa prescindere dalla felicità personale anche sessuale, è in fondo un film d’amore, un amore disperato e totalizzante, un amore capace di cambiare il corpo e l’anima delle persone. Un amore costretto però a passare dall’accettazione, personale in primo luogo e poi sociale, un amore che qualcuno definisce “contro natura”, un amore a cui qualcuno guarda con disgusto e malcelato disprezzo. Un amore che è un vero e proprio percorso di fede, allegoria dantesca e metafora esistenziale; un amore che è dolorosa scoperta, santità, cinema. João Pedro Rodrigues, facendosi forza anche delle enormi differenze stilistiche rispetto a ciò a cui ci aveva abituati, confeziona ancora una volta un film sognante e crepitante, viaggio mistico in un onirico che, non di rado, assume toni incubali e magnetici. Confermandosi, ancora una volta, come uno fra i registi più interessanti e liberi dell’intero panorama contemporaneo non solo europeo. Il suo è un cinema ipnotico, pronto a sgusciare sotto la pelle dello spettatore, rapirlo, trasportarlo. Come una canoa nella corrente, trascinata nelle rapide e poi su, verso il cielo. O forse verso Padova, chissà.

Marco Romagna