O GRANDE CIRCO MÍSTICO (2018), di Carlos Diegues
Il circo è sempre stato uno spazio fondamentale per il cinema, perché fondamentalmente lo definisce e lo accoglie come essenza gemella e visione comune. Già dai tempi di Meliés per arrivare a Fellini, tanto per citarne due, la spontaneità della magia circense ha spesso definito il cinema del fantastico, tracciandone coordinate identitarie e mai banali. Ed è proprio qui che una vecchio e commosso maestro del Cinema Novo brasiliano come Carlos Diegues ha voluto tornare alla macchina da presa per girare un’infinita saga familiare; perché più che mai il circo è luogo mistico di riconciliazione, specchio dei mondi e condivisione di emozioni. Un luogo rassicurante e metaforico probabilmente, per un autore che torna alla finzione dopo dodici anni, proprio nel periodo in cui il suo maestro (e padre di molto del cinema sudamericano moderno, Nelson Pereira dos Santos) se n’è andato. La base di partenza di O grande circo místico, presentato a Cannes fra le proiezioni speciali, è una splendida poesia di Jorge de Lima (già rivisitata artisticamente dall’immenso Chico Buarque e il balletto di Edu Lobo del 1983), e l’evoluzione è un viaggio nostalgico e sentimentale in un secolo visto attraverso gli occhi (perplessi) di coloro che sulla testa avevano un tendone.
Si parte dal 1910. La decisione del giovane di una nobile famiglia di abbandonare gli affari per la propria passione è l’inizio di una saga, una favola che ne contiene infinite. Solo il maestro di cerimonia pare immutabile nel corso degli anni, mentre artisti e numeri cambiano vorticosamente, portandosi dietro piccole vittorie e grandi naufragi; il tempo intanto passa, l’imbarbarimento della società colpisce ovviamente anche il circo e i suoi figuranti. Si muore e si nasce nello stesso momento, regnano le pulsioni più animali alternate dal sentimento che sfida la morte, ma spesso è la disperazione a vincere questa vita di eccessi che solo il desiderio non può sopportare. Le cinque generazioni di O grande circo místico declinano così il mondo, e non si fermano alla dicotomia tra ascesa e caduta di una famiglia circense, ma puntano a porsi come indagine più ampia attraverso una galleria di personaggi fantastici (che è impossibile non amare) senza spazio e senza tempo, che tornano continuamente a (re)citare loro stessi soprattutto quando non sono in scena, forse perché parte di una simil-Odissea libidinosa e calda che nasconde un’amarissima solitudine di fondo. Ma i tempi stanno cambiando e il circo, come tutti i giochi di una volta, non ha più la sua fortuna (testimonianza è anche il senso di appartenenza e di lotta che da una generazione all’altra va a perdersi); arriverà sempre un ultimo spettacolo, e proprio in quello è la magia a regnare. Un ultimo volo che redime il tendone da esser solo più un bordello di bassa qualità; il sipario si aprirà ancora una volta, e questa volta lo show sarà offerto dalla casa.
Il film di Diegues sicuramente emoziona per la fantastica galleria di personaggi cangianti, per quello che rappresenta il crescere all’interno di un circo e di come il secolo abbia cambiato la percezione dello spettacolo, di coloro che lo frequentano ma soprattutto di tutti quelli che lo praticano. E senza dubbio a O grande circo místico non manca l’afflato umano, lo spettro completo di quello che donne e uomini possono provare, addensato nel rapporto di fiducia reciproca che porta in dote lo stare insieme in scena (emblematica è la scena del gettarsi nel vuoto per un salto mortale a occhi chiusi, affidandosi alle mani del compagno che ti deve salvare). Quello che manca è però forse proprio il cinema, non cercando per forza barlumi di radicalità legate ancora alle esperienza del Novo, ma per lo meno un linguaggio che abbia ancora pulsioni e che non si fermi all’atto puro del mostrare questo affresco di complicità estremamente profondo. Ecco quindi che l’operazione nostalgica di Diegues appare spesso stanca nella sua, comunque ammirabile, sincerità; un qualcosa che cerca di esser più fruibile e vendibile (vedi soprattutto la presenza, non necessaria, di Vincent Cassel) mostrando come un’epopea straordinaria di cinema della modernità (vedi, solo per quanto riguarda Diegues, Bye Bye Brazil e Quilombo, opere fondamentali degli anni ’80) sia oramai tramontata quasi definitivamente. Spesso pare che tutto ciò che stiamo guardando svanisca direttamente col nostro sguardo, come se quello dell’autore non volesse indagare la profondità insita in ogni storia, anche la più misera; un peccato considerando quanto a quelle figure oramai ci si senta legati, forse perché abbandonate da tutti al loro destino. E forse proprio lì sta il senso di vedere un film, profondamente umano, come O grande circo místico. Sta nel cercare di comprendere l’emozione che rimane appena la pulsione svanisce. E questo aspetto, nonostante il manierismo spesso anche cacofonico di questo film, rimane illuminando anche il resto, e rendendoci complici di una commedia umana che probabilmente noi mai potremmo vivere. In fondo lo spirito di quel cinema n(u)ovo, nonostante nascosto, vive anche inconsapevolmente almeno nelle anime di chi l’ha creato, e ora cerca ancora di trasmetterlo. L’ennesimo capitolo di circo al cinema (e viceversa) è da considerarsi dunque irrisolto. Ma come potrebbe esser altrimenti?
Erik Negro