“Estou buscando aquilo que o povo brasileiro espera de nós desde a chanchada: fazer do cinema brasileiro o pior do mundo”
Rogério Sganzerla
Ivan Cardoso è una di quelle figure emblematiche, ai margini addirittura di una marginalità (come fu quel cinema “udugrudi” o “marginal” appunto che nell’epopea brasiliana del modernismo fu soggiogata linguisticamente – e non solo – dall’estetica della fame). Anzitutto è un folle, un regista e fotografo carioca che sempre più negli anni ha assunto lo status di personaggio di culto, e quasi santone del trash, del limite, del gioco continuo con la decontestualizzazione del tutto. È stato coinvolto nel cinema nei primi settanta, quando ha lavorato come assistente alla regia di Rogério Sganzerla, poi ha iniziato le sue scorribande in 8mm che lo hanno portato ad essere il principale detentore della frangia più anarchica e tragicomica dell’intera esperienza avanguardistica di Tropicalia. Sarebbe impossibile esternamente definire un percorso nella sua filmografia, e forse anche per questo motivo ci ha pensato lui stesso.
Possiamo partire da un attimo, e cercare di descrivere il tutto. In una sequenza di questo lurido e delirante poema in prosa dell’eterno enfant terrible Cardoso, la locale celeberrima icona della cultura pop José Mojica Marins parla alla macchina. Un attimo dopo spiamo una donna che si masturba su una rivista con Coffin Joe , resa famosa da Marins. In fondo la realtà cosa può essere se non lo svelamento stesso del cinema? Nella visione di Cardoso del mondo, il rapporto tra il mezzo ed il reale è sempre invertito, la divisione tra arte alta e cultura bassa era il momento fondamentale della costruzione dell’azione, ed addirittura di lettura della società, prima che qualsiasi teorizzazione fu fatta. La (non) musica di John Cage commenta la rasatura del pube di una ragazza, la cultura tradizionale si fonda a improvvisate ricostruzioni mitologico-storiche, il viaggio in un Brasile confuso e variopinto si intreccia con una personalissima e dissacrante deriva della visione. Il collage delle sue opere è una summa stessa del lavoro libero e del pensiero di Cardoso, profondamente radicata nell’humus popolare della sua terra a che si avvicina con fascino romantico e quasi malinconico; un approccio espressivo quasi familiare che però non nega uno spazio ingenuamente filosofico e senza tempo.
Film cardine della splendida selezione programmata da Olaf Moeller sulla modernità (ed attualità) del surrealismo, l’opera di Cardoso ci insegna come tutta quell’ondata di reinterpretazione folle e personale del reale non si esaurisca con l’esperienza avanguardistica storica, ma sopravviva (ed anzi si alimenti) nelle dinamiche degenerate e degeneranti della contemporanea società dello spettacolo. La figura di Cardoso in un certo senso è quella del resistente, del continuatore e precursore di un cinema che si diverte a sbeffeggiare la società tutta, ma che non smette di amare l’uomo e di trovare in lui la follia (almeno quella artistica) della rivoluzione, del far saltare il banco, del far esplodere le immagini per tornare a vedere veramente le cose. Un altro grande film di ripensamento e di riscrittura apparentemente testamentarie, ma cosparso di energia cosmica e primordiale che gioca continuamente verso una metamorfosi futura. Prima dei brandelli di pellicola del finale che filtrano la luce di chiusura, proprio nella figura di Joe Coffin oramai stanco, malato e disilluso, questo straordinario baccanale lascia dietro di sé il sapore malinconico di un periodo che mai tornerà, ma allo stesso modo mai morirà. Lunga vita ai vampiri e alla loro immagine pura che continuerà a divorarci. Con gusto.
Erik Negro