NYAI – A WOMAN FROM JAVA (2016), di Garin Nugroho
Per certi versi può sembrare continuamente utopico, o quantomeno retorico, il tentativo di ri-costruire la storia di un paese attraverso le storie del cinema, ma non può non intendersi in un senso più ampio l’estrema necessità di autori nati sul crinale di un modernismo linguistico così libero da permettersi di scavare in passati torbidi per tentare di guardare futuri ancora sconosciuti. L’enigmatica figura dell’autore cardine della contemporanea vague indonesiana, Garin Nugroho, tesse tele continuamente diverse ma sullo stesso telaio a tasselli, per cui ogni parte diventa importante e sussistente dell’intero discorso. In Nyai – A Woman from Java, ultimo suo lavoro di specchi e memorie che arriva a soli pochi mesi da Chaotic Love Poems, parte da molto lontano, e da quella dominazione orange che ancora oggi appare fondamentalmente (a livello identitario più che culturale) irrisolta. Siamo nel 1927 a casa di un ricco, vecchio e malato terriero olandese, che vive con la sua bellissima e giovane moglie indonesiana. Lei rinuncerà al suo nome, si chiamerà Nyai, e così a tutti i diritti da donna libera, solo perché concubina di un facoltoso occupatore straniero. Così le giornate si susseguono in una prigione dorata che nulla esclude ma che diventa il set di ospiti e spettacoli d’intrattenimento per il capo famiglia. Solo nel finale emerge la sua fatica, in un infinito respiro di dignità che come un fiume in piena avvolge tutto.
Da pioniere, Nugroho dirige un film lontano anni luce dall’affermazione del proprio (personalissimo) linguaggio, si limita (?) a una sobria mise en scene di tavole e quadri, in un infinito piano sequenza unico. La storia si sussegue in un flusso, che la protagonista stessa non riesce a concepire, attraverso l’ingresso in campo dei personaggi e allo stesso modo il tempo scorre, per noi spettatori, attraverso i soli cambiamenti di luce che di taglio illumina il salone di questa casa così anonima. A decorare questo fluire scorci di musica tradizionale e danza indonesiana, sottotrame di amori e possessioni, giochi di parte e di palcoscenico, drammi familiari e derive geo-politiche. Nel gran teatro del mondo (Indonesia), in cui anche il fantasma di Charlot può apparire, ogni strato ne sottende un altro nel respirare l’eleganza della lotta silenziosa che la protagonista vive come dialettica personale e morale, al cospetto di un colonialismo vorticoso che nemmeno può rispettare un amore.
Emerge un mescolarsi delle arti (e della performance) del secolo scorso, quasi elevate a metafora di quelle scorie che il post-coloniale lascia in grembo a realtà che ancora oggi soffrono nel tentativo subolo di de-occidentalizzazione e riaffermazione degli elementi culturali propri. Proprio così la camera definisce questo cinema da camera, in un altra camera possibile (utopica) di rivendicazione di diritti, lotte, tensioni, o semplici possibilità che l’uomo bianco (a cui lei, già venduta da piccola, non si dovrebbe concedere) simboleggia ad incominciare proprio dal senso della terra (e dalla politica di sfuttamento a cui i propri lavoratori autoctoni erano imposti). In questo gioco a scatole solo la piccola Nyai esplora la sua anima, e nel finale ,quando la camera (da presa) oltrepassa per la prima volta la camera (fisica), può finalmente recitare la propria parte, ma solo nell’assenza di un controcampo. Nugroho, contaminatore più che mai di arti e linguaggi, così si conferma autore problematico e complesso, affascinato sempre da una narrazione alternativa, che intuisce la possibilità di trasformare il rigore della forme in una sostanza morale non comune. Una visione che cambia radicalmente e che lascia aperta una possibilità continua di dialogo, apparentemente forse utopica e retorica, ma che conferma in maniera delicata ma ferma la necessità del capire e la voglia di svelamento che il substrato di eventi che ci hanno condizionato rigorosamente impone, anche con il più piccolo e dolce dramma da camera.
Erik Negro