NUESTRO TIEMPO (2018), di Carlos Reygadas
L’ultimo sforzo nel campo cinematografico del cineasta messicano Carlos Reygadas, Nuestro Tiempo, è un oggetto alieno e complesso da approfondire. Il film dura quasi tre ore ed è di gran lunga l’opera più personale firmata dall’autore, solitamente dedito a sordide opere provocatorie che giocano con il pornografico (v. Batalla en el ciel) o con un surrealismo panteista e violento (v. Post tenebras lux), riuscendo con successo a fare breccia nel cuore delle nuove generazioni cinefile. Non lo diciamo con disprezzo, ma oggettivamente è vero: l’appeal c’è tutto, tra fellatio reali fotografate con toni sul bianco e auto-decapitazioni psichedeliche in mezzo alla tempesta, per un immaginario efficace che si imprime nella retina. Il regista riflette sulla spiritualità e sulla sessualità, con una messinscena del mondo che collima con l’astratto e con l’onirico, e in ciò si forma uno stile abbastanza unico, con lenti sfocate, sporche e distorte, lens flare e tempi dilatati. Nuestro Tiempo procede con molte tracce lasciate da Post tenebras lux, ma tendenzialmente subito si separa dal resto della filmografia dell’autore, perché sembra assente la ricerca di una visione che vada oltre il contenuto concreto del fotogramma. Prevale una ricerca di vigoria pura, che nel prologo, per certi versi, ci ricorda, anche se probabilmente è un paragone che Reygadas non porrebbe mai come proprio, film come Mektoub, my love: Canto 1 di Kechiche o Tarde para morir joven della Sotomayor; questo perché le scene d’apertura di Nuestro Tiempo introducono subito lo spettatore nell’ennesimo microverso panteista, con un senso della quotidianità pieno di sincera gioia vitale. Sono rappresentati bambini immersi nella natura che si prodigano in giochi infantili e puerili scontri tra i sessi, e da lì ci si sposta invece a un gruppo di adolescenti, stesi sotto un albero a bere birra e a fumare canne, e sembra che quello stesso mondo continui, vada in avanti, superi il mondo del bambino. È tutto contemporaneo in realtà, ma è esplicita una diretta progressione temporale. Da loro ci si sposta a introdurre il protagonista del film, Juan, interpretato dallo stesso Reygadas. Però nella prima ora abbondante di film lo sguardo della mdp gira attorno alla routine della comunità, spostandosi tra varie famiglie, nuclei lavorativi o amichevoli. Juan, poeta nel tempo libero che possiede un ranch con la moglie Esther (Natalia López, moglie di Reygadas), è sempre al centro, ma tutto gira attorno a lui come attorno, del resto, a Reygadas stesso nell’atto della ripresa. Questa sezione del film è efficace, trascina il pubblico in un’immersione totale ed enigmatica, quasi misteriosa, in cui le sequenze scorrono l’una dopo l’altra fluidamente senza grossi salti pindarici nel simbolismo eccessivo. Si è cullati in un nulla immaginifico, che sembra un sogno o un ritorno nel Kalachakra, o nella pace dell’esistenza.
A un certo punto, con naturalezza di montaggio e progressione narrativa fluidissima, il film cambia direzione drasticamente, smette di concentrarsi sul totale e si dedica al particolare. Dopo aver accennato al fatto che Juan e Esther sono in una relazione aperta, si viene presto a scoprire che la logica di questa liaison è tutt’altro che funzionale, e si entra interamente nel loro rapporto. I dilemmi di coppia sono soprattutto problemi di comunicazione, ma anche di spazi privati e personali: Juan vuole sentirsi libero con Esther ma ha anche bisogno di avere dei rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, mentre non ha mai successo, e soprattutto ha bisogno che la moglie sia sincera e gli dica sempre tutto, cosa che lei puntualmente non fa. È perché non si trova mai il momento giusto, e il primo errore trascina i due in un vortice di malintesi in cui lei appare schizofrenica, confusa sul rapporto con lui mentre lui esercita il potere in maniera colpevolmente maschilista verso l’amata, soffrendo nei vari insuccessi, paragonandosi con gli altri attorno a lui. È palese che l’operazione sia almeno in parte autobiografica, e che Reygadas stia prendendo come fulcro della faccenda i propri reali problemi di coppia. Usa il film come psicoterapia, probabilmente, come facendo un proprio Scene da un matrimonio o un proprio Diaries di finzione, mettendoci tutto il cuore, tutto il dolore, tutta la sofferenza struggente. Sopraggiungono tuttavia svariati problemi etici e formali: dove finisce il mettersi a nudo con onestà e ispirazione e dove comincia l’operazione egocentrica, eiaculazione cruenta dell’autore? Può il tipo di dilatazione di un film del genere davvero reggere la complessa durata delle tre ore? Reygadas racconta la sua storia in maniera intima e drammaturgicamente ben scandita tra pochi momenti chiave, e a volte procede con un simbolismo che ha dell’arrogante – giusto ieri avevamo sospeso il giudizio sull’ultimo film di Nemes, Sunset, proprio a causa di un’ultima inquadratura a dir poco problematica, ma qui la situazione si ripete in maniera simile, perlomeno nei confronti dello spettatore. Non mancano grandi trovate di scrittura o di messinscena, e in particolare ce ne viene in mente una nella parte centrale del film, un lungo piano sequenza costituito da una ripresa aerea che si sposta dalla foresta alla metropoli fino ai campi nei pressi della pista di un aeroporto, svelando all’ultimo le ruote e il momento dell’atterraggio, con in sottofondo una voce narrante che legge e racconta una mail scritta da Esther, in cui apre il cuore al marito, per la prima volta davvero lucidamente, raccontandogli i tumulti amorosi del suo spirito per una vita intera. Ma può una scena visionaria e potente davvero completare un film?
Nuestro tiempo è l’ennesimo film ad aver nettamente diviso il pubblico nel concorso veneziano, ma qui invece che per ragioni strettamente di messinscena cinematografica o di etica ci pare un problema di semplice condivisione umana nell’approccio tra film e spettatore. Dopo la suggestiva prima ora, che è un’interessantissima e coinvolgente introduzione al resto ma allo stesso tempo è abbastanza superflua rispetto al discorso generale, il film piomba in un racconto delle dinamiche che procede a rilento analiticamente, entrando nelle ferite più profonde dell’autore e della moglie con continui errori umani e continue ammissioni di colpe. Il ritratto che fuoriesce da Juan è quello di un uomo debole e nevrotico, che ha bisogno di rimanere sempre in potere, una persona troppo legata alle parole e alla logica, paranoico, solo, voyeur, come un tipico poeta maledetto, lupo solitario; Esther invece dimostra parvenze di bipolarismo e nevrosi, ma agisce di frequente come diretta reazione alle azioni sconsiderate della gelosia del marito (e alle volte è perfettamente giustificata). Nuestro Tiempo è onesto, spesso creativo e spesso gratuito, spesso intenso e altrettanto spesso freddo verso Reygadas stesso – tranne che nel primo piano piangente verso la fine, che interrompe il totale di una scena spiritualmente forte per dedicarsi pornograficamente all’angoscia intima dell’autore. Si inquadra, si sottovaluta, ammette le proprie colpe insieme alla moglie e si minimizza, e nel contempo urla al pubblico la sua disperazione nel mondo della sessualità. La sua autocommiserazione si alterna alla sua arroganza, e la densità sincera delle sue confessioni si confonde con una distratta e difficile inquietudine verso le sue azioni. È insomma un film in cui è arduo forse entrare, nonostante proponga, nella sua riflessione ‘tout court’ sulla sessualità a partire dall’esperienza del regista, svariati spunti interessanti su quanto può essere umanamente efficace la dinamica della relazione aperta. A volte le intenzioni del regista sono di difficile comprensione, ma più spesso Reygadas insiste nel dilatare sequenze opprimenti e/o romantiche, anche inquadrando dettagli insignificanti, posizionando la mdp in posizioni scomode e deliranti con scelte di sguardo arbitrarie. E sicuramente è più interessante quando si separa dalla concezione egoica dell’autore e prova a comprendere la femminilità e il carattere della moglie: c’è in particolare un momento molto espressivo in cui un concerto di timpani alternato a delle riprese di esterni descrive il ritmo interno di Esther alternato allo sguardo esterno sull’universo attraverso l’architettura, finalmente iniziando a dichiarare la vera e propria analisi della psiche di coppia. Quindi qualcosa si interrompe, l’empatia. E dipenderà sicuramente da spettatore a spettatore, però pare anche che Reygadas stesso veda se stesso sbiadito, non capisca come porsi, e continui a filmarsi cercando di capire come o cosa dire. Ed è interessante, ma di solito non basta.
Nicola Settis