NOTHINGWOOD (2017), di Sonia Kronlund

È un messaggio molto semplice, quello di Nothingwood. È un messaggio di pace, è un messaggio che invita a posare le armi e a prendere in mano le videocamere, è un messaggio che invita a lasciar perdere le frammentazioni e i divieti per seguire le passioni più genuine e totalizzanti. Sonia Kronlund, in Afghanistan, era già stata più volte nel suo primario ruolo di giornalista, e nel corso dei suoi viaggi ha più volte raccontato e mostrato la morte, la sofferenza, le bombe, i ceppi etnico-religiosi, le folli derive talebane, gli orfani, i crimini contro l’umanità, le privazioni. Quelle imposte dai talebani, quelle che ancora oggi negano nei fatti al Paese qualsivoglia forma di intrattenimento e di cultura, quelle che vietano persino il cinema. Per lo meno fino a quando non appaiono, dal nulla, personaggi come Salim Shaheen, un tempo soldato e ora regista e attore cinematografico fra i più prolifici al mondo. Nerboruto e dotato di una fisicità che lo porta a passare dalle automobili sollevate ai balletti in playback, Shaheen fa cinema perché lo ama, fa cinema senza un centesimo, fa cinema in un Paese in cui il cinema non esiste: “Non è Hollywood, non è Bollywood, questa è Nothingwood, perché non c’è nulla e non ci sono soldi”. Ma al di là dei divieti Salim Shaheen continua a viaggiare per l’Afghanistan per presentare i suoi film in sale improvvisate e ovviamente troppo luminose, e fra una proiezione e l’altra continua a girarne, sempre con la stessa improbabile e improvvisata cricca di attori e collaboratori, che vanno dai suoi figli al magnifico Qurban Alì Afzali, genialmente premiato dalla giuria del Biografilm Festival 2017 come migliore biografia, effeminato e vistosamente omosessuale in un paese in cui l’omosessualità non può esistere, e infatti sposato e con figli, ma libero, almeno sullo schermo, di essere se stesso, vestendo abiti femminili e regalando istanti di pura disperazione materna quasi, tanto per riprendere le motivazioni espresse dalla giuria bolognese, in odor di Pasolini.

Certo, quello di Salim Shaheen, impegnato nei giorni mostrati da Nothingwood nella realizzazione del suo centoundicesimo film, è un cinema ben al di sotto della serie Z, è un cinema assolutamente artigianale, lontanissimo da qualsivoglia professionismo, un cinema fatto di canzoni, litigi e combattimenti che non hanno necessariamente soluzione di continuità, è un cinema girato con telecamerine da poco dai figli del regista presi impunemente a pietrate quando l’inquadratura non lo soddisfa, un cinema in cui, salvo inconvenienti tecnici, è sempre buona la prima. Eppure, fra sconfitti costretti ai lavori più umili e piccoli e grandi eroi del quotidiano, fra spunti autobiografici sul cinema come “vergogna” e personaggi reali, il cinema (im)possibile di Salim Shaheen porta sullo schermo l’Afghanistan di ieri e di oggi, fatto di kalashnikov e differenze culturali, fatto di tradizioni e piccole e grandi ribellioni, fatto di eserciti regolari e di talebani, fatto del dedalo di ceppi etnici e della disperazione di chi perde tutto, fatto di sciiti e sunniti, fatto di chi parla pashtu e chi parla dari, e soprattutto fatto di guerre civili, di continue invasioni, di bombardamenti, di aerei militari che passano anche sopra alla troupe improvvisata mentre Shaheen, incurante, continua a tuonare a pieni polmoni i suoi “Action”. Il suo costante girare e presentare film è di per sé un atto di Resistenza, uno sberleffo alla guerra e alle privazioni imposte da chi questa guerra intestina la alimenta e la combatte. È una cinematografia che si sviluppa dove una cinematografia non solo non esiste, ma è espressamente proibita, anche se poi, protetto da passamontagna e occhiali da sole a renderlo irriconoscibile, giungerà di fronte alla macchina da presa della Kronlund anche un ex-talebano, che parlerà del fiorente commercio clandestino dei film di Shaheen anche fra chi dovrebbe considerarlo un atto sconcio.

Presentato per la prima volta poche settimane fa alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes70, Nothingwood è un passo verso la normalità, o per lo meno il racconto di un tentativo tangibile, concreto e appassionato di avvicinarcisi. È la nascita di una cinematografia nascosta sotto la polvere estiva e la spessa coltre di neve invernale delle zone più montuose, ed è l’incastro di due mondi e di due modi di approcciarsi al cinema, da un lato il suo aspetto più magico e onirico, il suo voler credere alle favole, e dall’altro quello più cronachistico e riflessivo, quello documentaristico per fare luce su un uomo e lo spirito che incarna. È un film antibellico, di respiro umano, politico e culturale, nel quale Salim Shaheen apre una finestra sulla propria personalità, sul proprio lavoro, sulle proprie tradizioni, sulla propria famiglia – o meglio sui propri figli, perché la prima moglie imposta dai genitori e la seconda invece trovata e amata, che ora convive perfettamente con la prima, “non avrebbero accettato di farsi vedere, ma sappiamo tutti e due che questo non è vero”. Salim Shaheen si sposta per il Paese, si fa amare da tutti affermando in qualsiasi città di essere nel luogo che ha dato i natali a sua madre, cerca di aiutare anche col proprio fisico chi sia in difficoltà, e nel frattempo ride e scherza con Sonia Kronlund, la prende un po’ in giro per il suo continuo informarsi sulla sicurezza della zona, mentre è continuo il loro reciproco confronto. I due cineasti usano le immagini in maniera estremamente differente, quasi opposta, eppure Nothingwood diviene in un certo senso il punto di sintesi fra chi ispira la finzione alla sua vita mentre ispira la propria vita alla finzione, e chi invece pazientemente vuole mostrare e raccontare la realtà e gli avvenimenti quotidiani. L’obiettivo è in un certo senso comune: quello di costruire una narrazione, quello di parlare dell’Afghanistan, quello di porlo sotto una luce inedita, decisamente meno funerea rispetto alle tragiche abitudini. Quello di usare il verbo “to shoot” non con il significato di “sparare”, ma con quello di “girare”. Quello di lasciare l’Afghanistan vivere, e una volta tanto sognare. Finalmente.

Marco Romagna