Due elementi sostanziali caratterizzano Nostalgia de la luz, documentario di Patricio Guzmán presentato a Cannes nel 2010 e approdato la prima volta in Italia al Biografilm Festival del 2012 (ove è stato poi riproposto nel 2015 e nel 2019, mentre nelle sale italiane è arrivato nel maggio 2016, curiosamente, per una scelta del distributore, una settimana dopo il suo ‘sequel’ “La memoria dell’acqua“, ancor più discutibile scelta tutta italiana con cui è stato snaturato il “bottone di perla” del titolo originale El bóton de nácar): quello spaziale e quello temporale. Da un lato, abbiamo un luogo che è un non luogo, il deserto di Atacama, in Cile, tra i più aridi al mondo, con il suo perenne campo di alta pressione causato dal duplice effetto della corrente di Humboldt (che facendo condensare le nuvole direttamente sul Pacifico rende praticamente nulle le precipitazioni nella zona continentale) e della presenza, ad est, della Cordigliera delle Ande, insormontabile sbarramento naturale per l’umidità proveniente dal bacino amazzonico. Un luogo inospitale, desolato ma di straordinaria bellezza (e le frequenti immagini dettagliate del suolo lunare, proposte da Guzmán nel corso dei poco più di novanta minuti di durata della pellicola, fanno tornare alla mente le parole pronunciate da Buzz Aldrin poco dopo il primo allunaggio: «Beautiful, beautiful. Magnificent desolation»). E se da un lato abbiamo un luogo, dall’altro abbiamo un tempo, il passato, nelle sue molteplici e variegate accezioni. I due elementi si uniscono nelle tre linee narrative proposte dall’autore. La prima è quella astronomica: grazie alla sua posizione geografica, alla presenza di rilievi anche molto elevati, alle condizioni meteorologiche di cui si è detto e alla scarsa densità di popolazione della regione, il deserto di Atacama ospita alcuni tra i radio-telescopi più moderni e potenti del pianeta. Il tempo sempre sereno, senza addensamenti nuvolosi, e l’assenza di inquinamento luminoso avevano portato la comunità scientifica internazionale ad eleggere questo luogo quale punto privilegiato per l’osservazione del cosmo, almeno fino a quando tale attività veniva svolta dentro i confini della stratosfera. Il deserto di Atacama regala lo spettacolo straordinario di un cielo tra i più tersi che si possano ammirare sul nostro pianeta, che consente di osservare, già soltanto ad occhio nudo, lo splendido spettacolo della volta stellata. Con quei telescopi, ovviamente, gli astronomi riescono a fare molto di più, compiendo quotidianamente un tuffo nel passato – ed eccoci al secondo elemento – ricevendo la luce e le radiazioni elettromagnetiche emesse milioni se non miliardi di anni addietro dai corpi celesti.
La seconda è quella archeologica: in quelle terre si trovano reperti che vengono analizzati dagli studiosi e che svelano usanze, storia e stile di vita delle popolazioni precolombiane. Talvolta si tratta di semplici e primitive incisioni rupestri di pastori e carovanieri indigeni, che intagliavano nella nuda roccia le sagome di figure antropomorfe, alla stregua di maschere volte a esorcizzare ancestrali paure. In altre occasioni vengono recuperate mummie perfettamente conservate, anche in questo caso per merito delle condizioni climatiche che fanno registrare livelli di umidità ridotti (e una conseguente scarsità faunistica). Anche qui, dunque, lo spazio e il tempo.
La terza è quella più strettamente storica: nella regione di Atacama un gruppetto sempre più esiguo di donne si ostina a cercare i resti dei desaparecidos cileni, i prigionieri politici scomparsi e giustiziati durante la dittatura di Pinochet. In quella zona vi erano infatti i campi di concentramento ricavati dal regime dagli antichi villaggi di minatori, tra cui il più grande del Cile, quello di Chacabuco. E lì vi erano anche le fosse comuni, emerse soltanto a distanza di anni, a testimonianza diretta dell’orrore di quel periodo storico. Quelle donne erranti, conosciute come le Mujeres de Calama, ormai da decenni setacciano quegli ambienti inospitali per recuperare, se fortunate, minuscoli frammenti di ossa appartenute ai loro fratelli, genitori o parenti uccisi dal regime di Pinochet. Persone assassinate a bruciapelo e sepolte nelle fosse comuni, che successivamente sono state grossolanamente e frettolosamente svuotate con mezzi meccanici per tentare di eliminare le prove di quegli abomini. Ecco dunque il perché delle ossa ritrovate soltanto più in frammenti, con il resto dei corpi probabilmente gettati nell’Oceano Pacifico. Le Mujeres de Calama si ostinano a cercare quei resti per poter dare una degna sepoltura ai propri cari, e invece si vedono costrette a incrociare per strada gli aguzzini che materialmente si macchiarono di quegli orrendi crimini.
I temi di Nostalgia de la luz sono di grandissimo rilievo storico, politico e sociale, per il Sudamerica, per il Cile, ma anche, estensivamente, per quel grande affresco di esperienze spesso tragiche e nefaste che è la storia dell’Uomo. Gran parte delle immagini sono estremamente suggestive (dall’incipit ambientato dentro un vecchio osservatorio astronomico, con una macchina da presa sostanzialmente statica a fotografare i lenti movimenti dei carrelli che spostano i telescopi; alle straordinarie riprese nel deserto di Atacama, alcune delle quali in notturna, per catturare l’eccezionalità di quello che è probabilmente il punto di osservazione del firmamento più privilegiato del pianeta). L’idea alla base di questo documentario, quella di intrecciare tempo e spazio, passato e deserto, è sicuramente interessante. Eppure, il tentativo ripetuto di imbeccare allo spettatore i collegamenti tra le tre linee narrative si risolve, spesso, in un che di forzato, con un certo imbarazzo che sembra emergere persino dalle parole degli intervistati (il giovane astronomo si sforza – chiaramente su richiesta – di cercare analogie tra la sua attività e la ricerca dei resti da parte delle donne di Calama, ma è in evidente difficoltà e non può che rifugiarsi dietro similitudini stiracchiate e il conforto delle frasi fatte). Accostamenti che uno spettatore mediamente accorto riesce a cogliere senza la necessità che vengano esplicitati in maniera didascalica. Si tratta, tuttavia, di un piccolo neo che non può sicuramente sminuire il valore di un’opera necessaria, nel suo complesso. Un’opera politica, filosofica, storica, antropologica, umanissima, a tratti commovente. L’intento di Guzmán resta infatti nobilissimo e l’ostinazione con cui ormai da oltre quarant’anni porta avanti la sua lotta – politica, ma soprattutto di civiltà – contro il tentativo di diluire la memoria collettiva, annacquando il ricordo degli anni della dittatura, è encomiabile.
Nel 1972, con El primer año, Guzmán aveva descritto i primi dodici mesi del Governo Allende, un documentario scovato da Chris Marker e da questi portato in Europa, ove si aggiudicò alcuni premi festivalieri minori in Francia e in Germania. Come poi andarono le vicende è cosa nota: il colpo di Stato del 1973 instaurò la dittatura di Pinochet (Guzmán fu tra coloro che filmò le drammatiche ore del bombardamento della Moneda, riprese utilizzate di recente anche in Santiago, Italia di Nanni Moretti). E già dal 1975, due anni dopo aver abbandonato il Paese natio, non senza aver subito in prima persona le angherie della dittatura, Guzmán portò avanti la sua opera di militanza cinematografica con il primo capitolo di La batalla de Chile (La insurrección de la burguesía), documentario proiettato per la prima volta a Cuba e che fu seguito nel 1976 dalla seconda parte (El golpe de estado) e nel 1979 dalla terza (El poder popular). Dal documentario che dava atto di una nuova esperienza politico-sociale ai tre che registravano amaramente la fine di un’utopia.
Anche questo Nostalgia della luce fa idealmente parte di una trilogia, che dopo esser proseguita con il già citato El bóton de nácar, Orso d’argento a Berlino, si è chiusa con La cordillera de los sueños, presentato l’anno scorso a Cannes e che sarebbe dovuto uscire in questo mese di maggio nei cinema italiani, grazie alla solita I Wonder Pictures in cui confidiamo per una distribuzione alternativa.
Vincenzo Chieppa