NON CREDO IN NIENTE (2023), di Alessandro Marzullo
«Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal coordinati fra loro»
Zygmunt Bauman, citazione che apre il film
«Lo vedi che ogni cosa che facciamo non funziona? Non funziona un cazzo: non abbiamo più vent’anni». Come se Non credo in niente, prima ancora che l’intreccio corale e irrisolvibile dei frammenti narrativi di tre storie, quattro protagonisti puntualmente frustrati nelle proprie ambizioni artistiche e tutti i necessari personaggi di contorno con cui farli interagire in ogni possibile contraddizione e ambiguità del quotidiano, fosse prima di tutto un film su una sensazione, quella del terreno che scivola e che frana sotto i piedi, quella di chi si ritrova in un vicolo cieco e a ogni passo per tentare di uscirne finisce sempre più per impantanarsi, quella dell’instabilità emotiva ed esistenziale dei trentenni di oggi, sospesi e intrappolati in una lunga notte il cui orizzonte sembra non volersi aprire in alcun modo ai primi raggi dell’alba. Del resto ha esattamente trent’anni il regista esordiente classe ’93 Alessandro Marzullo – semplice omonimia senza alcun legame con il famigerato conduttore delle notti su RaiUno –, e gira attorno ai trent’anni tutto il cast principale, dalla coppia di musicisti costretti a farsi schiavizzare in nero nella cucina di un ristorante alla cantante e disegnatrice costretta a sbarcare il lunario come hostess, fino all’attore e avventuriero seriale (ma incapace di distinguere la realtà dalla finzione in una qualsiasi relazione più profonda di una sessione di sesso occasionale) che non riesce nemmeno a esprimere le sue mancanze affettive e il suo disagio interiore – «Lo vedi che non hai niente da dire?» – e che forse proprio per questo fa sempre più fatica a trovare ingaggi. Tasselli di una generazione costretta all’incertezza e immancabilmente insoddisfatta nel confrontarsi con le proprie, altrui e sociali aspettative, ancora legata ai propri sogni eppure al contempo già plasmata dalle continue facciate, dalle reciproche incomprensioni, dalla difficoltà estrema, o forse proprio dall’impossibilità, di trovare un proprio spazio in un mondo progettato per altri e nel quale non sembra in alcun modo esserci posto per chi è nato fra metà Ottanta e metà Novanta. Non resta che vagare, in metro, in moto o in taxi, nell’oscurità e nelle luci al neon di una Roma più che mai sporca e oscura, in balia degli eventi e degli incontri, in balia del capitalismo e del più crudele neoliberismo, in balia di una società ormai sempre più disinteressata all’arte, in balia della necessità di lavorare a costo di soffocare le proprie ambizioni e il proprio talento. O forse proprio di riuscire ad assecondarlo nonostante tutto, autoproducendosi (insieme al coraggio delle piccole Flickmates e Daitona, che a Marzullo e al progetto di Non credo in niente invece hanno creduto eccome), su una piccola scorta di emulsione Super16mm senza reali possibilità di spreco, un film totalmente libero e coraggiosissimo, da qualche parte fra l’aggiornamento del canto generazionale (e dei grandangoli obliqui e sghembi) di quello che fu nel ’95 Dorme di Eros Puglielli e le poetiche penombre, frammentarie e sognanti nei neon rossi e blu, del cinema di Wong Kar-wai.
Un lavoro non necessariamente perfetto in tutti i suoi centoquattro minuti, non esente da qualche soluzione di messinscena che pare ancora un po’ grezza e da qualche ripetitività nelle sequenze musicali che alternano in montaggio le peregrinazioni senza (possibilità di) meta dei vari protagonisti, ma forse proprio per questo ancora più affascinante, personale, autarchico, sfacciato. Lontano dai compromessi e dalle standardizzazioni dell’industria, e pronto a gridare a gran voce una propria idea autoriale ed estetica che, nel sempre più asfittico panorama contemporaneo, è impossibile non ritrovarsi naturalmente a difendere e anzi sostenere a spada tratta. Nella sua disperata ricerca di un lampo di luce e di colore, di un momento in cui (sognare di) ribaltare i rapporti di forza, di un locale notturno in cui liberarsi attraverso il corpo e la musica, o per lo meno di un paninaro ambulante e un po’ filosofo aperto fino al mattino (magari interpretato da un Lorenzo Lazzarini che da dietro le lenti giallastre degli occhiali guarda apertamente e non certo a caso alla romanità di strada e orgogliosamente coatta di Mario Brega) in cui trovare l’unica possibile certezza di un approdo sicuro, di un consiglio disinteressato, della realtà di una bestemmia che riecheggia in sottofondo, del ritorno dell’umanità. Anzi, forse in qualche modo è proprio la sua imperfezione, il vero punto di forza di Non credo in niente, presentato in anteprima assoluta come evento speciale fuori concorso nella prestigiosa vetrina della 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, secondo l’abitudine ormai consolidata da qualche anno del Festival marchigiano di dare spazio agli esordi italiani (da Lumina a Un altro giorno d’amore, ma a ben vedere già dai tempi di Ananke di Claudio Romano era chiara questa attenzione per l’indipendente nostrano anche al di fuori di quella che fu la sezione Satellite) più orgogliosamente fuori dal canone. La stessa imperfezione, sfaccettata come un prisma, delle personalità lacerate e delle vite sospese dei protagonisti di un lavoro lungamente provato con gli attori, per poi fotografarlo il più possibile “buona la prima” lungo una dozzina di nottate di riprese sparse su quasi un anno di lavorazione su un’emulsione in passo ridotto nelle cui incompiutezza della grana Alessandro Marzullo intrappola le loro stesse incompiutezze, la loro stessa sensazione di polvere che si progressivamente si posa sui sogni, il loro stesso disagio nel sentirsi in qualche modo “sporchi” rispetto alle aspettative. Individui pienamente adulti ma ancora incompiuti, irrisolti e forse irrisolvibili, sospesi da qualche parte fra il sogno e il fallimento, fra il dramma e la commedia, fra le frustrazioni e l’autocoscienza d(e)i se stessi.
Come se il rumore dell’immagine fosse il rumore che infesta le loro vite e i lacerti delle loro storie, più forte del silenzio delle loro notti: personaggi destinati a non incontrarsi mai, eppure in qualche modo identici e intercambiabili, intrappolati nella medesima sospensione e nelle medesime contraddizioni, nei simili tentativi di fuga, nel luogo in comune in cui mangiare e farsi tirare su il morale addentando un panino con porchetta e cicoria, e forse soprattutto nella musica (ottimo il lavoro del compositore Riccardo Amorese nel declinare e astrarre il medesimo tema in più arrangiamenti e atmosfere possibili, ma anche molto intelligente la scelta di scegliere attori che suonassero personalmente, rispettivamente, il violino, il pianoforte e la chitarra in accompagnamento al canto di Demetra Bellina) che inevitabilmente li lega. In un racconto in cui ogni piccolo episodio che li riguarda è in sostanza una possibile sfaccettatura di un’unica personalità più complessa, polimorfa, fatta di aspetti anche antitetici, così come è tridimensionale e spesso spigoloso ogni singolo carattere personale, e soprattutto come è tridimensionale e declinabile all’infinito l’intera generazione di cui, volenti o nolenti, ci si ritrova a essere rappresentanti. Un decalogo di momenti di solitudine e di dialettica in cui non è certo casuale che si brindi alla sintetica angoscia di Guy de Maupassant e alla sofferta mancanza di certezze di Reiner Maria Rilke, fra gli improvvisi litigi e i baci appassionati con cui chiedersi scusa, i silenzi assordanti e i logorroici meccanici che pronunciano così tante parole da svuotarle di significato, i nuovi tagli di capelli con cui cercare una nuova vita ma riscoprire la medesima fragilità e i capi che privano i lavoratori di ogni diritto ma non di quello di percularli. Fra le estemporanee esibizioni su un palcoscenico e le lunghe prove per cercare quell’amalgama musicale che sembra non arrivare. Fra la cupa rassegnazione e la brillante ironia con cui cercare di allontanare i fantasmi quotidiani, fra la più (in)volontaria manipolazione e la necessità – anche violenta, perché la vita è violenta – di trovare uno sfogo alle ripetute frustrazioni. Fra i momenti in cui pensare di fuggire per ricominciare da capo e quelli in cui rendersi conto che la via di fuga non esiste, che non ha il minimo senso ritrovarsi soli di fronte al tabellone delle partenze di una stazione: si può solo tornare a casa e in qualche modo resistere e trovare il modo per sorridere, ancora, insieme. Non sia mai che proprio nei frammenti di disillusione di chi non crede più in niente si riesca a ritrovare il modo per credere definitivamente in se stessi, questa volta fino in fondo, fino al concerto, fino agli applausi, fino allo schermo. E pazienza se proprio dovesse essere solo fino alla griglia del paninaro: vuol dire comunque essere liberi. Basta non avere rimpianti, essere consapevoli di aver saputo osare.
Marco Romagna