NOMADLAND (2020), di Chloé Zhao
Chloé Zhao, classe ’82, è nata a Pechino, ma l’ambiente produttivo che la circonda è quanto di più americano possa esistere. Negli Stati Uniti ha studiato cinema e scienze politiche, per poi esordire al grande schermo con una serie di progetti indipendenti elogiati per la commistione di elementi drammatici fondati nella realtà e attori non-professionisti che ne restituiscono la verità, il valore, in particolare i Lakota Sioux protagonisti dell’acclamato The Rider (2018). Nomadland è il suo ultimo film con mezzi indipendenti, che tuttavia si avvale delle interpretazioni di due grandi nomi di Hollywood, Frances McDormand protagonista e David Strathairn, un primo passo semi-industrializzato verso la sua prossima produzione, che sarà la prima ad alto budget e dovrebbe essere il più ambizioso dei lavori Marvel del 2021, un film ispirato alla saga degli Eterni. Cosa può essere, dunque, una via di mezzo tra una produzione ad alto budget e un tipo di cinema che è sostanzialmente discendente del Neorealismo, dell’approccio “da strada” che cerca l’incontro tra realtà e finzione mediante la drammaturgia? Nomadland risponde, è un’indagine che mischia recitazione e confessionale documentaristico, ricerca di crudezza e sincerità ma coi mezzi della retorica. La Zhao non fa niente per nascondere la propria appartenenza ed essenza, ovvero il cinema americano, e non uno sguardo asiatico né quantomeno europeo, benché le radici della sua idea di approccio alla storia e al cast sia palesemente derivante dal cinema nostrano degli anni di Rossellini; e perciò non può starci antipatica, quanto magari un Rosi, quando gioca col fuoco dei rapporti irrispettosi tra realtà e finzione dato che non “macchia” la realtà con uno sguardo da esteta come fa il documentarista dietro Notturno, bensì tenta di “sporcare” la realtà messa in scena con tutti i mezzi a sua disposizione – sempre tenuta e considerata l’appartenenza dell’autrice a un modo di raccontare strettamente americano. Il suo approccio statunitense però non si rifà al cinema classico né a quello indipendente recente, quanto semmai, nel percorso discorsivo che la storia propone, alle modalità dialettiche dei drammoni hollywoodiani ‘da Oscar’, i film di tutta scrittura con nessuna regia, richiamati nello sfilacciarsi della trama, momento chiave dopo momento chiave. Però non può essere così, perlomeno non totalmente, perché la Zhao ha un’idea di regia e descrizione umana che va al di fuori dei canoni stretti. Frances McDormand è Fern, ex-insegnante e vedova, che ha perso la casa e vive nel suo camion a giro per il continente Nordamericano, tra deserti freddi e deserti caldi. Non è alla ricerca di un senso, ma semmai di un’appartenenza, pur non potendo sacrificarsi a una vita di sedentarietà, preferendovi sempre la natura errante, il nomade, l’essere “houseless” senza essere “homeless”, essere cittadina degli U.S.A. senza un senso di provenienza da uno Stato specifico.
Guardare un film significa spostarsi volontariamente in uno spazio diverso da quello in cui si è, la sala buia, e di conseguenza percorrere un viaggio “dall’altra parte”, oltre lo schermo, e in questa missione sia la Zhao che Frances MacDormand compiono un lavoro, perlomeno all’inizio, lodevole. La vita dei neo-nomadi statunitensi, figli del mondo di Furore ma impiantati in un’etica esistenziale “allo sbando” che nulla ha a che vedere con le carovane raccontate da Steinbeck e poi riviste da John Ford, è ritratta senza giudizio, in una sorta di suite improvvisata, in cui messinscena pura e viaggi periferici attraverso quest’umanità de-urbanizzata si alternano in armonia. Fern è un personaggio molto umano, a cui la McDormand, come consueto nei suoi ruoli dalla sbirra di Fargo alla protagonista di Tre manifesti, conferisce un’umanità che davvero porta a far perdere la sua personalità dentro quella del personaggio, in un gioco continuo con lo spettatore che è a suo modo divertente, e sfida anche i preconcetti del documentario e del mockumentary. Lei sembra una comparsa in un film di Wiseman, o in Below Sea Level (il Rosi che preferiamo), a cui è dato un riscatto attraverso una storia, una catarsi mediante la creazione e la trasformazione – e invece il suo personaggio è totalmente fittizio, turista/attore sopra il palco della realtà, in cui si scambia e si conosce con le “persone reali”, o le loro ombre, quello che è concesso alla cinepresa, tra un montage di paesaggi desolati malickiani e l’altro. La Zhao fornisce un’analisi del fenomeno dei neo-nomadi che è strettamente legata al saggio da cui il film è tratto, Nomadland – Un racconto d’inchiesta (2017) di Jessica Bruder, ma ovviamente usando l’audiovisivo dev’essere fatto un passo ulteriore – strettamente nel montaggio e nel susseguirsi significativo di situazioni visive che si concatenano, il risultato è tutt’altro che banale, relativamente unico nella fluidità della narrazione, pur episodica e priva di strutturazioni classiche. Quando funziona per aneddotica, Nomadland funziona, in particolare nell’incontro con Swankie, interpretata da se stessa, una vecchia nomade che si sta per dirigere verso una morte solitaria nella sua oasi personale, lontana dalla realtà cittadina come da quella da vagabonda, dalla finzione e dalla messinscena, in un fuori campo lontano chilometri. Quando però la storia procede e va verso momenti di puro dialogo e costruzione retorico-politica, l’indagine viene meno e quello che traspare è perlopiù il bisogno di dare una forma impostata, per quanto minimale, a un messaggio, ricostruito mediante conversazioni verbose e univoche. Essendo i personaggi sperduti, è giusto che il discorso abbia un che di dispersivo, ma trovare nella dispersione vaghe tracce di una morale a volte porta a essere confusi, distaccati, riportati coi piedi per terra e il cervello fermo nella sala a trovare Nomadland uno strumento di retorica piuttosto che un’opera d’arte emotiva. Tanto che la wilderness Sulla strada di Jack Kerouac appare lontana, probabilmente incompresa. La parte in cui Fern va a trovare sua sorella in particolare è oppressiva in modo farlocco, espresso soprattutto da dialoghi didascalici e una recitazione teatrale che scozza drasticamente con l’estetica e l’etica del resto della storia.
Nomadland insomma non è un film errato, ma è un film “che erra”, viaggia e sbaglia, va in una direzione e poi in un’altra, costruisce e distrugge il proprio percorso contemporaneamente. È un film che non apparirebbe così pregno con una protagonista dal volto diverso, e che invece sarebbe più denso e vero senza le musiche ossessive e ingombranti di Ludovico Einaudi o senza il gratuito product placement di Amazon, il cui logo appare sempre in inquadrature da spot pubblicitario evitando il conflitto critico, che sarebbe necessario in quest’epoca in cui persino nel cinema e nella serialità più mainstream vanno a braccetto l’anticapitalismo e la rappresentazione (nel senso di discorsiva per immagini atta a portare ai sensi del pubblico un senso di identità “al limite”, al di fuori dai canoni dell’intrattenimento). Ma le nostre critiche, che sono più che altro ai conflitti interni di intenti, moralità e puramente forma, si annullano probabilmente di fronte alla recentissima notizia del Leone d’Oro, giunta proprio durante la scrittura di questo pezzo, che porta il film della Zhao a essere icona della vittoria del cinema sul Covid-19, tanto decantata durante la cerimonia di premiazione, e sull’inizio di una nuova epoca di festival e di cinema al limite, anche qui più che mai verso gli Oscar. E saremo, anzi ci sentiremo, sempre vecchi, o perlomeno vecchi dentro, quando cercheremo di difendere un certo tipo di visione cinematografica che non è basata sulla rappresentazione e sui suoi mezzi che spesso sono piatti, ma sulla ricerca, attorno ai dubbi esistenziali, di un qualcosa che il cinema possa costruire, in cui tutto è libero o tutto è perfetto, o entrambe le cose. Nomadland non rappresenta per noi questa cosa. La sua libertà appare spesso finta e la sua costruzione è tutt’altro che perfetta – è un film che vive grazie alla sua missione e all’intensità del suo intento, ma in cui tutto, spesso, appare fallace e privo di un respiro sublime, come del resto in quasi tutti i film del mediocre concorso veneziano (ma non delle altre ottime sezioni, e qui ci sarebbe da aprire un lungo discorso sulla collocazione dei titoli all’interno della scacchiera festivaliera) di quest’anno. Era da mesi il film più atteso e pubblicizzato, e quindi in qualche modo è probabile che sia un Leone politico, hollywoodiano, mezzo mosso da motivazioni sociali o per metà autoriali – era telefonatissimo e prevedibile anche prima della visione, che è risultata deludente. La frontiera non è piatta, è violenta, non si sforza per far piangere o emozionare, è emotiva di per sé. Qualcosa manca, e qualcos’altro è stato guadagnato. Sono i nostri tempi, in cui siamo tutti un po’ nomadi, chissà, disorientati anche nel mondo dei film, e di che cosa una visione può comportare nelle miriadi.
Nicola Settis