NO U-TURN (2022), di Ike Nnaebue
La sezione Panorama Dokumente della Berlinale 72 ospita quest’anno Ike Nnauebe, che con No U-Turn – prodotto con l’agognato Berlinale World Cinema Fund (WCF) – fa parte di quei venticinque film figli del progetto sulla gioventù e migrazione di Generation Africa. Un film travelogue che ri-traccia in forma documentaristica il suo stesso coming of age, quando più di vent’anni fa parte dalla Nigeria con l’idea di attraversare Benin, Mali e Mauritania verso il Marocco e da qui raggiungere l’Europa ma si ferma a Bomako perché troppo rischioso. Dopo un periodo in Gambia ritorna in Nigeria e qui diventa filmmaker. Ecco che oggi ripercorre lo stesso tragitto, questa volta senza inversione a U ma guardando avanti, fino al Marocco e poi verso il mare, mischiando le reminiscenze della sua storia passata con quella di vari personaggi che incontra, e che nel racconto di loro stessi rendono la migrazione non una questione di numeri o una logline sul giornale, ma un volto, due occhi, una voce e mille sogni. Così li riporta il film, che riesce a documentare senza essere narrativo, a informare senza essere lontano. E così ammette lo stesso regista, che si presenta a una fortunata intervista a due infilata in orario di pranzo, reduce da un tour de force di giornalisti e masticando un morso di panino perché non fa pause: potrebbe «parlare del film per ore».
Un film che non è solo contenuto ma è stile, quello intimo con cui riesce a catturare la vera essenza della migrazione e la vera essenza del viaggio di per sé, che è fatto soprattutto di interminabili attese raccontate attraverso immagini simboliche e quotidiane, accessibili a tutti: uno spazzolino da denti, un bicchiere, un materasso per terra, ingannare il tempo. Ike Nnauebe non si appoggia alle parole dei protagonisti, che pure da sole basterebbero a rendere il film potente, ma è interessato all’«essenza poetica» della sua narrazione, perché d’altronde – come mi dice fiero – ha sempre fatto poesia e musica. Ed è con questa ispirazione che ha deciso di raccontare questa storia multiforme, lasciandosi ispirare direttamente dalle immagini dopo averle filmate per costruire quel voice over poetico che accompagna tutto il film e lo rende una sorta di diario personale di un osservatore pronto a ricevere qualsiasi forma di emozione, qualsiasi fardello, qualsiasi confidenza, ma soprattutto pronto a stupirsi. Il documentario d’altronde non poteva che essere fatto che in una completa apertura mentale e senza decisioni a tavolino dal momento che, come mi spiega lui stesso non sapeva chi avrebbe incontrato per strada: «le persone si muovono costantemente, questo significa che dovevo avere un’open mind, capire che questo film poteva andare come voleva. L’unica cosa costante è la mia storia».
Storia di un viaggio che vent’anni fa per lui si era fermato a Bomako e che oggi invece supera il turning point e continua per testimoniare di quello degli altri, quello drammaticamente noto come «della speranza». Ed è casualmente nel pullman che lo porta a verso la città in cui era avvenuto l’U-turn che ora avviene l’incontro con un ragazzo che simbolicamente ha all’incirca della stessa età di Ike all’epoca e che – in un film costruito intorno a personaggi indimenticabili – è forse quello che colpisce di più. Si fa chiamare Gucci per la marca che adora, non ha neanche 20 anni, è un hair stylist con il carisma di una star ed è in viaggio verso il suo futuro. Con un sorriso a metà tra eccitato e commosso si svela di fronte alla camera in due parole «so che mancherò a mia madre, ma so che un giorno tornerò come un uomo di successo». E in questa giornata di Berlino d’inverno quasi primaverile il regista racconta che l’incontro è avvenuto esattamente come si vede nel film: dopo aver già notato l’energia del ragazzo – chiamato dagli amici Davidò come un popolare artista nigeriano – durante una sosta mattiniera in cui la gente aspetta fuori dal pullman e si lava via il caldo di dosso. Gucci si mette a fare freestyle con i suoi amici e salta di fronte alla camera, «è così che siamo diventati amici».
Dopo Bamako le colonne d’Ercole sono superate e senza svoltare si va verso il Marocco, quel terreno non più familiare che ancora una volta si traduce in scelte stilistiche per cui da ferma, calma e sobria la regia diventa più irrequieta: «Ero aperto a dipendere dai personaggi che avrei incontrato perché mi guidassero. Sapevo che la parte marocchina del film sarebbe stata diversa». E ad attirare la sua attenzione saranno Laura e Sandra, due tra le tante donne raccontate in questo film – sicuramente anche femminista – che diventano le vere protagoniste di questa ultima parte, così determinate a inseguire un futuro in Europa che nell’attesa sono disposte a elemosinare per strada o a pensare di costruire una barca per arrivarci da sole. Perché prendere la U turn è fuori discussione, non c’è ritorno. Un ultimo esempio estremo di resilienza (o forse sarebbe meglio in questo caso dire di Resistenza, personale e collettiva), che culmina in un finale in cui lo sguardo delle due, vicine, naviga verso l’orizzonte che agognano, di fatto continuando sulla linea che anima tutto il film. È un racconto sulla speranza, di un popolo fiero e caparbio in grado di trasformare la sua disperazione in qualcos’altro. È così che – quasi commosso – spiega Nnabue: «Pensavo che avrei fatto un film su persone disperate che cerano di andare in Europa, ma dopo che ho incontrato questi personaggi straordinari ho capito che stavo facendo un film su eroi».
Ognuno di loro si mostra con sincerità e apertura, in una regia che dà prova di enorme connessione con ciò che racconta e che riesce ad essere vicina senza mai scivolare nel voyeurismo, ma mantenendo un profondo rispetto per ogni individuo che lui afferma nascere dall’onestà, «la prima cosa che ho realizzato sul fare documentari», e non a caso va a braccetto con la «vulnerabilità». Racconta Nnaebue come ci sia voluto molto tempo per raccontare la sua storia ed esporsi con la sincerità con cui lo ha fatto, perché solo dopo aver messo da parte la «necessità che abbiamo come esseri umani di metterci davanti a tutto», e quindi solo dopo esserci resi vulnerabili, si può essere completamente sinceri. È questo che aiuta i suoi personaggi a esserlo loro stessi e a dischiudere il loro animo senza forzature, e deriva da quella sua genuina passione per le persone che riesce a erompere anche durante la mezzora dell’intervista: «sono un grande fan degli esseri umani, è una cosa che ho coltivato nel tempo e penso si trasmetta alle persone che incontri». Come l’arte dell’ascolto: «saresti impressionata dal vedere quanto le persone sono disposte a raccontarti se sanno che sai ascoltare».
Sono racconti di un viaggio verso l’unknown, parola che ritorna costantemente nel film poiché i personaggi scelgono di fare un salto nel buio e il regista con loro. Alla domanda su cosa abbia trovato dall’altra parte, la risposta è un vortice di pensieri e parole quasi commosse a partire dall’idea della paura dell’ignoto. Le persone rimangono attaccate a situazioni che non amano, «si attaccano al familiare perché almeno è familiare – devil you know is better than the angel you don’t know . Ma questo viaggio ha rotto questa paura in me (…) perché sono stato in posti in cui non c’è niente, la gente non ha neanche un posto dove andare a dormire (…) quindi adesso so cosa è importante e cosa non lo è (…), anzi, non ho neanche più paura della morte. Perché chi dice che i vivi stiano meglio dei morti? Anche questa è un volersi attaccare al familiare. Guarda quanto è stressante la vita, eppure nessuno vuole morire». Lo dice ridendo, ma poi continua serio: «tutti sono attaccati a ciò che conoscono, ma lo sconosciuto è in realtà il regno della magia, ed è questo quello che mi interessa». Quella fiducia assoluta dei compagni di viaggio che si tuffano verso quella che appare come una terra dei sogni e delle opportunità, anche lo spettatore occidentale che guarda da Berlino sa perfettamente come la realtà sia molto diversa.
Per questo la conversazione vira naturalmente sul tema del colonialismo come origine del problema, anche della corruzione: «Se vai da un popolo e dici loro che la loro cultura non vale niente e che il loro dio è il demonio e imponi la tua cultura, la tua civiltà e il tuo dio, quello che stai facendo è rimuovere la loro sicurezza: se togli a un popolo il suo dio e la sua civiltà, è morto. Quindi che cosa abbiamo? Persone che rubano soldi per costruire case europee, per mandare i loro figli in scuole europee, per vestirsi come gli europei, ragazzine che si sbiancano la pelle per sembrare europee». Insiste sulla necessità di parlarne seriamente «perché alla fine sarebbe meglio per gli africani fiorire in Africa che cercare di diventare europei, è questo che sta causando tutti i problemi». D’altronde anche la povertà africana è in qualche modo figlia del cosiddetto “progresso”: «prima le persone avevano abbastanza perché non serviva molto per vivere», ma questo ha sradicato abitudini sane e connaturate alla popolazione per portarne altre inadatte al luogo. Un esempio banale: «ci sono persone che non sono esposte al sole da anni perché vanno da un ufficio con aria condizionata a una macchina con aria condizionata a una chiesa con aria condizionata (…) – e non era così che doveva essere».
Si parla della responsabilità politica dell’Europa di oggi, che deve essere aperta ad un dialogo concreto. Riconosce i miglioramenti «come esseri umani» avvenuti negli ultimi cinquant’anni, leader europei più responsabili e severi che hanno scoraggiato il riciclaggio del denaro da parte dei leader africani, che a loro volta devono essere più responsabili. Ma il fatto sta alla base: «C’è un bisogno che deve essere affrontato, e l’Europa deve venire a patti con le ingiustizie che sono successe in Africa. Le persone responsabili non sono più qui, quindi non è una questione di vendetta. (…) Il punto è: ora che siamo qui, come possiamo lavorare insieme per costruire un mondo migliore? Non importa quanto chiudi le frontiere, questo non cambierà le cose». Un mondo che deve essere costruito con i giovani africani che «devono capire che la soluzione al continente non sta nei vecchi politici, che sono vittime della colonizzazione. È come cibo avariato, ormai non c’è molto che possano fare loro, perché sono più preoccupati di che vestito indossare ad una conferenza».
L’abito diventa per Ike Nnaebue come una forma di approccio al mondo, una simbolica presa di posizione identitaria e dunque quasi una dichiarazione socio-politica. Per questo si presenta alla prima mondiale del suo film con vestiti tradizionali africani indossati con fierezza, dal momento che «suo nonno e i suoi antenati sarebbero stati delusi se fosse salito sul palco cercando di essere europeo». Mi spiega così del bisogno di tornare alle radici non solo perché «cercare di essere un’altra persona è prima di tutto derubare gli altri della possibilità della diversità», ma perché «se non siamo connessi alle nostre radici sarà un problema per tutto il resto del mondo. Continueranno a costruire muri, a spendere budget nell’immigrazione, faranno altre regole e tentativi di tenere fuori le persone». Per questo pensa che sia arrivato il momento di tentare un approccio diverso e arrivare ad una comunicazione più profonda, perché «continuare a fare la stessa cosa ogni volta e aspettarsi un risultato diverso è la definizione della follia». E se il primo passo per il cambiamento è la parola, nel suo caso è anche l’immagine: questo è il suo contributo alla Berlinale 72, ed è il suo contributo alla storia di un di un popolo, di un continente, di due continenti. Ma in fondo alla storia di tutti noi uomini, grazie a un film che abbatte ogni barriera e giunge al cuore.
Bianca Montanaro