NO NO SLEEP (2015), di Tsai Ming-Liang
Il taiwanese Tsai Ming-Liang ha recentemente affermato di aver abbandonato la scena cinematografica con Stray Dogs, vincitore del premio speciale della Giuria al Festival del Cinema di Venezia 2013, ma ciò non l’ha trattenuto dal dirigere nel frattempo tre mediometraggi per “continuare” la serie non narrativa del monaco che cammina lentamente, interpretato dal suo attore feticcio Lee Kang-Sheng. Cominciata nel 2012 con Walker e l’irreperibile Diamond Sutra, e continuata prima con Walking on the water (2013) -ultimo episodio nella compilation di corti asiatici sulla nostalgia della patria intitolata Letters From The South – poi con Journey to the West (2014), la serie si arricchisce del recentissimo No No Sleep (2015).
Bisogna innanzitutto concretizzare l’importanza di Stray Dogs (2013) nello studio dell’identità cinematografica e analitica di Tsai per capire qual è la necessità che il regista cerca in questa serie di lavori meno ambiziosi che sicuramente continuerà a sfornare negli anni pur abbandonando evidentemente il formato del lungometraggio. Con il film del 2013, che ha proprio le cadenze e i temi di un’opera conclusiva, Tsai innanzitutto ha chiuso le “porte” – o, forse, è meglio dire le “pareti” – del suo cinema con un silenzio minimalista mostrato attraverso la sua solita tecnica registica di lunghi piani sequenza a macchina fissa, mostrando con lirismo tragico una riflessione pessimista sugli esseri umani come “cani randagi” bloccati nell’attività masturbatoria e deleteria del vivere. Esseri umani bloccati nell’asciuttezza (la privazione “interiore” dell’acqua, leitmotiv dell’autore, che comunque continua a imperversare all’esterno con fare apocalittico nelle pioggie urbane) di una vita povera, di un’esistenza lontana dai pigri imborghesimenti (di)mostrati da case-labirinto che Tsai mostra come giacigli primitivi, più che come abitazioni ricche. Volti, in grado di riflettere la propria esistenza e le proprie speranze sulla melanconica ed enigmatica figura di una spiaggia rocciosa dipinta sulla parete di un edificio abbandonato, nel contempo immagine naturalistica e riverbero visivo di un cinema (il suo) romantico e vuoto, lento e fermo, silenzioso ed eterno, etereo e insieme concretissimo. Tutto questo va rimembrato per potersi ricollegare alla serie di film a cui No No Sleep appartiene: una serie iniziata l’anno prima di Stray Dogs e dedicata ad un elogio della lentezza contrapposta all’industrializzazione e ai ritmi frenetici della globalizzazione. Questo, almeno, in Walker. Walking in the Water invece poneva il monaco nel distretto intimo e spoglio in cui Tsai è cresciuto, dando al tutto una sensazione più che altro di nostalgia, come è giusto relativamente al film antologico Letters from the South. In Journey to the West invece al discorso si aggiungeva un secondo personaggio interpretato da Denis Lavant (attore-feticcio di Leos Carax, celebre anche per ruoli in film di Harmony Korine, Veiko Õunpuu e Claire Denis), all’inizio figura fissa che guarda davanti a sé piangendo da solo nell’ombra, poi umano a figura completa, legato all’azione di seguire Lee Kang-Sheng mentre veniva sottratta completamente la pioggia. Apice del lavoro di sottrazione perseguito da Tsai, Journey to the West supera in questo senso la sua intera filmografia, andando oltre quello che sembrava decisamente concluso con Stray Dogs, continuando ad analizzare il rapporto tra ritmi diversi, immagini diverse, sensibilità (culturali?) diverse con empatia e talento visivo sempre più definiti.
Ma con quest’affermazione, con quest’annullamento del simbolo iconografico di Tsai per eccellenza, non è tutto concluso e lo dimostra No No Sleep. Superato l’iniziale entusiasmo alla scoperta dell’esistenza di questo mediometraggio, una delle prime necessarie sensazioni è il mettere in dubbio quello che l’autore potrebbe aver pianificato: si è reso quasi più prolifico, dopo il suo addio al cinema, riformulando in più e più maniere (sì interessanti e geniali, degnissime del regista importante che è) la stessa formula, aggiungendo e sottraendo caratteristiche contenutistiche ma pur sempre concentrandosi sulla figura affascinante del monaco, e prima o poi sarebbe naturale una perdita di fascino nello scavare tra le cose che si possono aggiungere all’idea di base. Ma stranamente, con No No Sleep Tsai ha rivoluzionato l’idea completamente, inserendo per la prima volta scene in cui il monaco non cammina ed è immobile (vero, nel finale di Walker si fermava per mangiare un panino, ma era pur sempre movimento), per la precisione seduto in una sauna, con accanto Masanobu Ando, attore giapponese che ha lavorato con Kitano e Miike, creando anche un primo contatto umano diretto – Denis Lavant in Journey to the West lo seguiva da lontano.
La prima parte dell’opera mostra al solito il personaggio vagare nel mondo con lentezza inesorabile, mentre tutto attorno a lui va a velocità supersonica: in questo caso, sono macchine, tecnologie frenetiche che consumano l’umanità dall’esterno. Sono micronuclei metallici che sono esterni sia al punto di vista di Tsai sia al punto di vista del monaco — ma prima di mostrarci la seconda parte di No No Sleep in sauna, il regista ci porta in un’altra misteriosa variazione dalla formula, mostrando la città attraverso il vetro di un treno metropolitano. È come se l’inserirsi o l’inserire l’occhio (della cinepresa, dello spettatore) nella tecnologia, nella macchina, nella velocità che è “nemica” (o comunque antagonista) del personaggio di Lee Kang-Sheng e che è a lui così esterna, sia un punto di svolta nell’intero progetto, forse anche per i capitoli successivi, ed è come se non ci fosse più la necessità di mostrare la lentezza per creare un paragone tra i due mondi, perché il mondo industrializzato, nel suo nevrotismo, l’abbiamo esperito in tutta la sua estremità e c’è bisogno della pausa. Una pausa, dalle necessità del mondo esterno (che è anche il mondo esterno dalla visione, ma che in ogni lavoro della serie è inserito lo stesso nell’inquadratura come per creare un’alienazione incompleta), una pausa per dedicarsi completamente al silenzio etereo dei fumi della sauna, in cui l’acqua regna sovrana come nei lungometraggi di Tsai, una pausa per tendere, nuovamente, ad una lentezza che ormai diventa fissità, sia visiva che corporea. Andando avanti nel discorso in maniera così radicale, non ci si può che chiedere dove Tsai voglia andare, dove voglia portare lo spettatore, quali mondi subirà il suo personaggio e quanto ancora potrà andare avanti quest’idea, senza perdere per strada il fascino, senza che il discorso sull’immagine che sembrava così perfettamente concluso con Stray Dogs rimanga in effetti solo e soltanto lì – cosa che, in realtà, andrebbe benone, ma evidentemente i suoi piani sono altri. Nel frattempo, abbiamo un altro eccellente tassello di un puzzle cinematografico clamoroso quanto misterioso, tra le operazioni più interessanti e strane messe in atto dai grandi Autori dell’oggi.
Nicola Settis