I giovani del Sessantotto, e quelli che sono venuti dopo, pensano che il mondo vada cambiato, cambiato con la violenza, ma non vogliono sapere perché, e come cambiarlo. Non vogliono conoscerlo, e dunque non vogliono conoscere se stessi.
Alberto Moravia
È passato mezzo secolo da quei 5 anni, poco più o poco meno, che tentarono di cambiare volto al secondo Novecento lasciando un’eredità senza dubbio problematica e affascinante. Lontano dalla storiografia più semplicistica e immediata, guardare ora al Sessantotto significa interrogarsi materialmente e soggettivamente su cosa possa avere rappresentato nel tentativo della comprensione di fenomeni sociali e politici che ancora oggi sfuggono. Forse è anche per tutti questi motivi, e anche per la situazione politica nel Brasile attuale, che João Moreira Salles, a Panorama Dokumente della 67ma Berlinale con No intenso agora, ha tentato di dare una traiettoria personalissima alle mille coordinate che segnarono quegli anni, taglienti come un rasoio separante il passato dal futuro. Nel 1966, durante un tour culturale nella Cina, la madre attivista del regista catturò su pellicola le sue impressioni del paese e della gente. Ancor prima ci fu il colpo di stato brasiliano (del ’64), un punto di partenza di questa esplorazione che si poggia sulle osservazioni di Moravia nel suo viaggio alle radici della Rivoluzione Culturale maoista, sulle impressioni a caldo di Cohn-Bendit tra le barricate alla Sorbonne del Maggio Francese, sulla lotta di Dubček nella torrida Primavera di Praga. Un percorso tormentato e tormentoso, che non potrebbe in nessun modo esaurirsi nelle due ore del film ma che apre una marea di parentesi e di interrogativi, ancora fondamentali e necessari (almeno per chi scrive) nel leggere l’oggi. Blowin’ in the Wind è del 1962, il “Port Huron Statement” dello stesso anno. Due chiodi piantati nel futuro da due ventenni, due manifesti (il primo culturale, il secondo politico) con cui tutti avrebbero dovuto fare i conti nelle stagioni successive. Se quello di Bob Dylan si espanse subito come un fiume inestinguibile tra i ragazzi della generazione dei baby boomer anche oltreoceano fino al Vietnam, quello di Tom Hayden (leader della SDS) fu un documento teorico fondamentale per ridiscutere il ruolo dell’istruzione pubblica, ma soprattutto quello dello studente critico in una società quantomeno anestetizzata. Da lì il passo verso il futuro fu molto breve, un passo che molti affrontarono giocandosi la vita propria e spesso anche quella altrui, nella continua deriva di sogni e incubi che l’urgenza della storia impone. Da una parte, a Ovest, giovani e operai in lotta contro la nuova società dei consumi che propone come unico valore il denaro, dall’altra, a Est, tutto il popolo unito a denunciare la mancanza di libertà e l’invadenza della burocrazia di partito. Quello che unisce tutte le contestazioni sono la messa in discussione e la visione critica di/su qualsiasi potere politico e di/su ogni discriminazione dovuta alla razza, alla ricchezza, al sesso, alla religione, all’ideologia. I modelli di comportamento del Sessantotto cambiarono il costume in profondità, mettendo a fuoco per la prima volta la crisi della struttura su cui si basa la nostra civiltà. L’aspetto politico fu solo l’apparato teorico del movimento, perché l’idea tradizionale di rivoluzione tramontò per intraprendere una sorta di diffusa e incondizionata disintegrazione del sistema, una rivoluzione moderna, aperta, totale. Ma proprio in questa espansione straordinaria e trasversale della rivolta si celano le principali criticità di quei giorni. Anche No Intenso Agora mostra come il valore culturale di un’espressione del genere fu subito strumentalizzato, usato e sfruttato dalla stessa legge del mercato (come insegna la teoria francofortista sull’avanguardia popolare, che prima di diventare conosciuta e usufruibile dalle masse viene studiata e commercializzata dal potere). E allo stesso modo, dall’altra parte, come la difficoltà del marxismo più ortodosso ha avuto nel giustificare ed appoggiare il Sessantotto davanti a masse che chiedevano la rivoluzione non essendo ancora entrate nel sistema della produzione sociale, ovvero non potendo ancora entrare nella teorizzazione di classe (e quindi anche della sua lotta).
João Moreira Salles interroga i documenti reinterpretandoli con la sua esperienza distante ma affascinata, mostra le incongruenze vive come le contraddizioni della Cina di oggi, la fuga di Cohn-Bendit in Germania e il suo attuale ritorno all’ordine, la retorica accessoria dell’utilizzo del martire Jan Palach nei giorni di Praga fino all’indipendenza. Simbolo di tutto ciò è il motto «Sous les pavés, la plage», forse il più poetico dell’intero Maggio, ma in realtà costruito ad hoc da un pubblicitario, proprio da un ruolo sociale e da una professione che propagandava il sistema mimetizzandosi anche con la lotta. Ma sarebbe sbagliato e profondamente ingiusto, al di là della parte che una persona si sceglie, speculare su questa eredità così spinosa e complessa. Salles rispetta la profondità più pura e libera del movimento, quella legata alla lotta contro qualsiasi guerra e razzismo, alla resistenza verso la privatizzazione di un futuro come all’acquisizione e alla difesa di molti diritti fino all’autodeterminazione, all’aumento del livello di consapevolezza generale e di diffidenza rispetto al potere e a qualsiasi classe dirigente. Dovremmo tutti rivolgere il pensiero verso quei tempi che mai torneranno, ma allo stesso tempo mai moriranno in tutti coloro che credono a quella rivoluzione culturale come ribaltamento della maniera di sentire, agire e pensare, una rivoluzione nelle maniere di vivere, prima della civiltà e poi della società.
Nella malinconia di giorni e tempi (non) vissuti vive ancora un processo di attivismo verso la democratizzazione reale della società e uno spirito critico europeo e mondiale che proprio oggi andrebbe riscoperto e ri-affrontato in maniera forse meno vorace e bruciante del venire lacerati, dissacrati e travolti in un’ondata provocatoria, ubriacante e irritante di giovinezza, ma più concentrata e identitaria anche perché forse i tempi sono addirittura più scomposti e quindi pericolosi. Lungi da me scrivere altre stronzate, ché già molte, anzi troppe, ne sono già state scritte su questo argomento, e chiudiamo con il titolo del film. Nell’intenso, oggi. Un invito che Salles dedica a se stesso, a una resistenza filmica e morale che dal repertorio delle sue straordinarie immagini ritrovate porta all’oggi, alla sempre più facile disillusione di un sistema che sopravvive nonostante sia disossato nella sua radice più profonda. “Apriamo le porte dei manicomi, delle prigioni, dei licei e dei nidi d’infanzia”, “Contro i sensi vietati, le strade del possibile”, “Diamo l’assalto al cielo”, “Il padrone ha bisogno di te, tu non hai bisogno di lui”, “Non rivendicheremo niente, non chiederemo niente. Noi prenderemo, noi occuperemo”, “Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile”. Anche questo si vedeva scritto sui muri delle università, sui cassonetti delle barricate, sulle auto ai bordi delle strade, oggi paiono tutti epitaffi di una fantasia ingenua forse ma anche dell’unica possibilità che ci fu posta. Perché ci chiediamo ancora oggi chi quegli slogan li ideò e non chi si mise a divulgarli, scriverli e raccontarli? Il cinema vive di prospettive e la Storia non può negarle. Cambiare il punto di vista significherebbe rimettere in discussione le certezze della società che rappresentiamo, ma saremmo ancora pronti? Pensiamoci, vietato vietar(ce)lo.
Erik Negro