Di tutti i film di concorso, fino ad ora estremamente interessante, ce ne uno che parla un altra lingua, non cercando altro che ricordare un attimo, fatto solo di intimità, di sguardi e di parole. Un film che vive nell’impossibilità fisica come nella presunzione ancora più impossibile di poterlo descrivere. Personalmente non penso che vada fatto, ma visto che un possibile ruolo di divulgazione ci è provvisoriamente dato, proverò a declinarlo in qualche modo, cercando di non ledere in nessun modo la sensibilità di chi è stato davanti e soprattutto dietro la macchina da presa. Al di là di questa premessa, probabilmente per molti che leggeranno cacofonica ma per me necessaria, l’ultimo lavoro della straordinaria Chantal Akerman, donna ed artista in costante lotta, è un’opera fatta e pensata in casa, tra le mura che l’hanno vista crescere, con accanto la persona che gli ha donato la vita. Basterebbe questo per fare il classico passo indietro, anche per un’Autrice così coraggiosa quale è lei, ma l’esigenza fisica e morale di fissare su un supporto gli ultimi momenti della vita della madre, hanno superato anche gli umanissimi timori di fondo. L’urgenza della vita spesso non ha il tempo del cinema e la Akerman stessa in questo caso pare la prima ad accorgersene. Proprio lei che quarant’anni fa con Jeanne Dielman sconvolse con semplicità le possibilità narrative di un cinema che andava sempre più a nutrirsi dal seno della vita, ora è costretta a definirne il controcampo essenziale quanto esistenziale. Ma andiamo per ordine, o almeno proviamoci.
“Questo è prima di tutto un film su mia madre, mia madre che non c’è più. Su questa donna arrivata in Belgio nel 1938, in fuga dalla Polonia, dalle atrocità e dai pogrom. Questa donna che vediamo soltanto nel suo appartamento. Un appartamento di Bruxelles. Un film sul mondo che cambia e che mia madre non vede.” (Chantal Akerman)
Si parte da un campo lungo, il vento del tempo che sconvolge un albero (della vita forse) al costante rischio di essere sradicato. I primi momenti della madre difronte alla macchina da presa sembrano definire una doppia coscienza in sviluppo, la nostra come quella della stessa Akerman, che insieme si intrecciano nella conoscenza di una memoria condivisa che pare essere sempre più strappata. Subito si dipana la Storia, che come sempre bussa prepotentemente alla porta di esistenze inconsapevoli, soprattutto in una famiglia di origine ebraica. La casa è la stessa, quella in cui si trasferirono nel 1938, ai tempi della persecuzione, proprio da lì tutto pare cambiare. Nella conversazione invece, da quel momento entrano in campo gli abitanti della casa; il padre che vuole abbandonare quelle tradizioni, la nonna femminista ante litteram e dalla vita libertina, e poi lei la madre stessa, l’ultima testimone quanto erede di questa saga, una come tante che solo ora la Akerman pare davvero considerare.
Gli incontri e le riprese domestiche si susseguono, e quando l’autrice è in viaggio, la mamma si emoziona a vederla su Skype. La considera ancora la sua bambina discola, dolce e folle. L’ha vista crescere ed iniziare un mestiere così particolare, a guardare gli altri e viaggiare per il mondo. Ogni conversazione così si conclude, con saluti, baci ed arrivederci. A far da intermezzo a questa sfera così intima c’è il deserto, riprese fisse come travelling a definire un’aridità, forse proprio di quel mondo che sta cambiando e di cui è impossibile definire delle coordinate. Ogni volta che le due donne si re-incontrano, i dialoghi si fanno sempre più dispersivi, le parole si perdono anche nelle difficoltà fisiche sempre più evidenti dell’anziana. La riconciliazione stessa con il (proprio) passato anche qui appare sempre più un miraggio a cui tendere, ed in cui la macchina da presa si può solo porre da antagonista allo scorrere delle cose, ma non può più afferrare tutto e soprattutto non può evitarlo. L’esigenza stessa di filmare la vita impone questa strenua resistenza.
Quando i sentimenti paiono ricostruire e definire la stessa possibilità di sezionare le proprie radici, le condizioni fisiche della madre degenerano. Prima era semplicemente svogliata e preferiva guardare il mondo scorrere sotto la sua finestra, ora è quasi paralizzata sulla sua poltrona, e a parlare sono le figlie, a cercare di non farla addormentare, solo per lasciare aperta per un ultima volta la porta della loro stessa storia. Da quell’ultimo saluto, in cui la Akerman citava la sua partenza per la Mostra di Venezia, l’ennesimo scarto sul deserto invece è costretto a chiudere quella porta. L’immagine zoomata verso la terra perde la stessa determinazione, del vedere come la madre perde il suo piccolo posto sul nostro pianeta. L’ultima inquadratura non può che essere la casa, ma ora è vuota, anch’essa pare non esserci più.
E’ un film che semplicemente dilania, in cui spesso (almeno personalmente) la fatica a sentire e guardare è grande. Il tenerissimo e pudico distacco della Akerman nel definire questo rapporto è uno straordinario atto di rispetto e soprattutto d’amore, in cui il cinema non può altro che farsi da parte. Queste due ore di incontri/scontri, di conoscenze di respiri e di sguardi svanisce nell’abbandono che la Akerman stessa consiglia per la comprensione/fruizione del suo film. L’immagine non può fare nulla appunto, se non farsi abitare da questa infinita e malinconica dolcezza, dell’umanità che si fa comprensione, dello sguardo che si sposta quando oramai anche per la protagonista non c’è più nulla da vedere. In realtà non c’è più nulla nemmeno per noi, perché tutti noi un giorno o l’altro siamo rimasti lì, in quella casa, e l’abbiamo poi vista vuota. Ad un certo punto la madre chiede alla regista il perché la filmasse, la risposta della Akerman suggeriva un percorso di definizione stessa della rottura delle distanze. Quelle distanze che l’obiettivo della macchina da presa in rarissimi casi come questo paiono annullarsi, nel moto continuo di riflessioni e rifrazioni di chi ci sta dietro o davanti ad una banalissima telecamera. Così anche quello spazio rimane vuoto, rimane il campo definito dai bordi dell’esistere, rimane l’estrema ed ultima richiesta di (ri)chiamare alla vita per la paura del vuoto, dell’oblio, non della morte. Quella è solo fisicità, l’anima in opere come questa rimane d/nella immagine, conservata per sempre nel cuore di un fotogramma. Il mondo cambia inesorabilmente in ogni attimo, ma l’amore no, almeno così puro mai.
Erik Negro