Useremo il breve Nimic per fare un bilancio sulla presenza e sul ruolo di Yorgos Lanthimos nel panorama cinematografico contemporaneo. Questo cortometraggio (12 min ma i titoli di coda ne durano almeno 2) presentato al festival di Locarno è un gioco sulla somiglianza tra la parola rumena ‘nimic’ (“nessuno”) e la parola inglese ‘mimic’ (“imitatore”) – un uomo di mezza età, interpretato da Matt Dillon, violoncellista auto inseritosi in una routine matrimoniale tenera quanto insoddisfacente, ha un curioso incontro sulla metro con una donna che poi comincia a seguirlo, a imitarlo, a tentare di sostituirlo come ‘pater familias’ – così appropriandosi anche della sua cocente insoddisfazione. Lei è una persona nulla, un ‘nimic’, che replica, ‘mima’ un altro individuo, di per sé annullato in maniera distopica dal suo stesso essere, bloccato in un’esistenza che diviene angosciosa quasi per sbaglio. Alla fine dei giochi (un paio di scene ripetute, un culmine in cui avviene lo scambio definitivo di fronte ai figli del protagonista, e una conclusione che fa ripartire eventualmente il loop di scambi e imitazioni), il ribaltamento avviene, senza colpi di scena o ribaltamenti o approfondimenti. A diventa B e B diventa A, la tesi si conclude senza che i postulati siano chiari. Tornato a lavorare con lo sceneggiatore greco Efthymis Filippou, Lanthimos racconta la storia con maestria, gestendo i dettagli e i primi piani con un’inquietudine soffocante e funzionale; ma 12 minuti, per rendere profondo un abbozzo, son troppi pochi. Nell’ambito cinematografico il cortometraggio è sempre stato sinonimo di sintesi, di efficacia nella brevità, di pugno nello stomaco e destrutturazione tramite sottrazione di quello che può dare la struttura in atti di un lungo, comprimendo i tempi. Lanthimos trascina il suo racconto sistematico in una gestione del tempo e dello spazio che non prevede climax ma solo una brulla e strisciante distesa nel vuoto della più prevedibile delle conclusioni, al punto che un soggetto di simil contenuto (il doppio interiore che diventa entità esteriore è stato già raccontato mille volte al cinema, da Lynch a Dumont) per essere interessante avrebbe dovuto essere disteso per una durata superiore, con più dettagli, più variazioni su tema, più fronzoli che creino uno sguardo separato. Così sembra un corto di uno studente di cinema, con una più consapevole perizia verso il mezzo cinema a livello formale ma anche una più povera idea di scrittura, priva d’impatto, fatta di simboli semplici e riconoscibili.
Lanthimos è ormai praticamente passato a Hollywood; anzi, è uno dei pochi autori delle nuove onde degli anni ’10 europee a essere davvero profondamente apprezzato e riconosciuto negli USA. La Favorita in particolare è stato certamente un trampolino per il suo nome a livello internazionale, anche, forse, perché distaccato drasticamente dai suoi temi e toni soliti: è come un quadro fiammingo posto in mezzo a una galleria di Munch. Ma non bisogna dimenticare che è tutto partito dai cinici esordi greci, coronati da Alps e soprattutto Kynodontas, un melodramma famigliare che introduce, ridotte all’osso, le basi di un corollario della caverna di Platone, cominciando freddo e proseguendo con sempre più evidente il compito di umanizzare con pessimismo disperato le marionette del suo mondo. Sembra sempre uno un po’ di maniera, che si diverte a distruggere ove non v’è nulla da distruggere, un provocatore dei nostri tempi confusi che non sa come o cosa provocare. Ma certamente riesce nell’intento di provocare emozioni, di turbare lo spettatore suscitando l’illusione di una presenza trascendente, un male non filmato che permea morbosamente il fuori campo. Tutto è messa in scena, tutto è disturbante. Ma, nel contempo, potrebbe esserci poco oltre la raffinata superficie. Gli altri suoi lungometraggi internazionali, The Lobster e l’euripideo Il sacrificio del cervo sacro, più che allontanarsi dalla matrice stilistica fondativa della nuova onda greca hanno tentato di rinforzarne l’estro creativo, con uno stile a tratti barocco e a tratti chirurgico. Nel secondo di questi, per esempio, Lanthimos alterna primissimi piani colmi di pathos a inquadrature distanti e onniscienti, in cui si pone al di sopra delle sue marionette, gode nel martoriarle con la sua visione disfattista dell’esistenza umana. Così è trattato anche lo spettatore, costretto a un andirivieni emozionale in cui il totale disprezzo e l’immersione sentimentale si fondono in una sostanziale ambiguità. O la si accetta o la si rigetta, direbbero in molti, ma si può anche prendere qualcosa e lasciare altro: Nimic per esempio ci pare essere, con La Favorita e Il sacrificio del cervo sacro, uno degli sforzi registici più completi e raffinati della sua carriera, ma se il cervo sacro non lo dimostrava pienamente per colpa di un intreccio programmato sadicamente e La Favorita lo dimostrava sin troppo per contrastare uno script interessante ma impersonale, Nimic ha come proprio nemico il vuoto e l’elementarità del racconto.
Ma cosa vuole raccontarci Lanthimos, nella sua filmografia? Un mondo di uomini devoti all’odio, individualista e materialista oltre ogni parvenza o maschera; ma qua in Nimic è la maschera a scomparire, l’uomo è nullo e vuoto e può solo subire una mimesi o iniziarla, appropriandosi dell’identità, dell’essere dell’altro. Americanizzatosi, l’autore greco non ha perso lo smalto o una direzione, ha solo trovato una più palese confusioni negli intenti e nelle svolte del suo cinema. Quindi comunque il punto di vista esposto è un vedere il bicchiere costantemente mezzo vuoto. Lanthimos inquadra i volti come se fossero paesaggi e monta momenti concettualmente separati con una verve espressionista e un uso della colonna sonora che richiama il cinema muto, dei dadaisti, di Buñuel. Ciò non toglie che l’impressione più immediata è quella di un compitino striminzito, e può arricchire l’immaginario costruito dal regista solo se si è suoi devoti appassionati; perché altrimenti è proponibile solo come un puerile oggetto studentesco con un budget troppo alto per il suo contenuto e un regista troppo competente per la sua semplicità. E la sua competenza è davvero visibile e notevole: scene come quella del concerto di violoncello della donna-mimo o come il climax, lo scambio tra Matt Dillon e la sua seguitrice che avviene sotto gli occhi dei figli, durante una prova di affetto, dimostrano una perizia che davvero dà l’idea che questo momento non sarebbe potuto essere filmato in modo più funzionale – è una regia davvero più che perfetta, per un prodotto che risulta banale a livelli sconfortanti. Ma è troppo poco.
Nicola Settis