NI DE LIAN (YOUR FACE) (2018), di Tsai Ming-Liang
Nel 2004, Tsai ha firmato Goodbye, Dragon Inn, un capolavoro del cinema asiatico moderno in cui viene perpetuamente messo in discussione il luogo fisico della sala cinematografica: lo spazio della visione diventa spazio per uno sguardo funebre, costretto a guardare in solitudine e in disperazione la fine, la morte e l’apocalisse del cinema cinese, l’ultima proiezione di una pietra miliare di King Hu. Nel 2013, con Stray Dogs, Tsai ha messo invece in scena la fine del suo stesso cinema, con una casa che “piange” come risposta alla pioggia ossessiva del resto dell’opera dell’autore, e con una parete che permane come oggetto da osservare, schermo statico che proietta immagini vuote. Col 2015 arriva Afternoon, rinascita documentaristica e intimista della sua filmografia. Alla 72esima mostra internazionale del cinema di Venezia, Tsai ha fatto breccia nel cuore dei suoi spettatori raccontando per la prima volta in maniera diretta e inequivocabile i propri drammi interiori, con un ‘logos’ visivo che poneva il regista stesso come protagonista, in un appartamento abbandonato al tempo, con il paesaggio che si dissolve dietro le finestre, con costante un dialogo con il suo attore feticcio, l’amato Lee Kang-sheng. Passato attraverso il musical, il cinema contemplativo e il romanticismo, Tsai con Afternoon ha abbandonato il mondo della narrazione per cominciare un altro percorso, basato su film che «nascono come fiori che sbocciano», come aveva anticipato in sala Pasinetti appena dopo la proiezione storica del suo documentario improvvisato e personale. Lo ha confermato col corto Xiao Kang, e poi ha delineato il suo nuovo percorso come un qualcosa di sperimentale con un’opera in Virtual Reality mostrata anch’essa a Venezia l’anno scorso, The Deserted. Quest’anno invece qui c’è fuori concorso Your Face, un film costituito da una struttura esile ma che riesce inevitabilmente a trovare la sua profondità proprio mediante la sua progressione strutturale. Questo film, che supera di poco la durata di un’ora e dieci, è costituito da 13 inquadrature, delle quali le prime 12 sono primi piani. Il modus operandi del regista sembra il seguente: ha deciso di dare lo spazio e il tempo di una lunga inquadratura ravvicinata a una serie di personaggi reali, 11 dei quali apparentemente sono vecchi incontrati a caso in una casa di pensione – così dando loro la libertà sul cosa fare di fronte alla macchina da presa. C’è chi chiacchiera ossessivamente, c’è chi sta completamente zitto, ci sono le vie di mezzo. E il dodicesimo personaggio è Lee Kang-sheng.
Nella prima inquadratura, un’anziana è inquadrata a lungo mentre si guarda attorno imbarazzata, finché non dice «non so cosa dire». La voce di Tsai fuori campo cerca di indirizzarla da qualche parte, ma lei risponde semplicemente che «sullo schermo quello che si vede è diverso». Dopo di lei c’è un’altra anziana che invece rimane immobile. Quella dopo fa esercizi con la lingua per migliorare la dizione ed evitare di balbettare. Segue un anziano che si addormenta, russa e risvegliatosi comincia a guardare in macchina. Segue una donna che racconta con emozione buona parte della sua vita, del suo rapporto d’amore materialista e onestissimo per i soldi e infine le varie scorribande complesse che ha dovuto vivere nel proprio rapporto con gli uomini. Poi un vecchio che piange, uno che racconta altre avventure sentimentali descrivendo l’ambiguità del destino, uno che suona l’armonica, uno baffuto, uno che non fa niente mentre in sottofondo ci sono i rumori che fa un treno passando lontano. Poi c’è una donna che parla del suo lavoro e della sua professionalità, un altro che socchiude gli occhi e la bocca e infine Lee Kang-sheng che parla del suo rapporto con i genitori. La macchina da presa fa un unico lavoro, ovvero contempla il volto. Tsai fa un lavoro semplicissimo ma efficace sulla direzione fotografica del primo piano: la mdp è quasi sempre fissa o fa movimenti fluidi e quasi impercettibili, la luce costruisce dicotomie sul volto, mappature in cui luce e buio compongono solo ritratti imperfettamente perfetti. Ognuna di queste vignette corrisponde alla rappresentazione priva di filtri di un essere umano che decide di rappresentare se stesso mediante qualcosa. Poco importa se questo qualcosa è la parola o il silenzio, perché Tsai in ogni caso riesce perfettamente a porre lo spettatore nella posizione in cui deve annullare lo spazio attorno al volto per entrare nell’immagine e viverla. Dreyer in La passione di Giovanna d’Arco lo faceva per creare maggiormente un senso di angoscia e immedesimazione sofferente, mentre qua Tsai vuole trasformare in geografia la carne, mantenendo se stesso fuori campo, come un oggetto che fa parte della scenografia. Lo spazio che non c’è diventa lo spazio della sala cinematografica, che quindi resuscita per dare aria e contesto allo spettatore, per creare immersione, e per mettere nuovamente in discussione il ruolo stesso dell’atto della visione. È un discorso forse più da dimostrazione video-installativa che da cinema, ma il regista taiwanese non è estraneo a questa complessità di linguaggi, come dimostra anche l’utilizzo assennato della lentezza programmatica del protagonista dei vari corti dedicati a “walker”, dall’eponimo capostipite al più recente No No Sleep. Ma in realtà in questo movimento basato sullo scorrere dei fotogrammi e non sul movimento esplicito dei personaggi è una pura espressione delle potenzialità del cinema, che può dare al pubblico la possibilità di ingresso nelle rughe dei propri personaggi. A volte, gli stacchi tra un primo piano e l’altro sono talmente inaspettati, a causa della lunghezza spropositata delle singole inquadrature, da essere difficilmente percepibili nell’organismo totale di Your Face.
Dopo questi 12 primi piani, che non costituiscono propriamente un crescendo, ma che implodono con l’arrivo di Lee Kang-sheng, primo volto noto in una sequela di volti ignoti: Your Face smette di essere una riflessione sui volti e diventa anche quest’opera un’introspezione di Tsai. Per esempio, mai avevamo sentito Lee Kang-sheng parlare così tanto, aprirsi in maniera così esplicita, dimostrarsi in maniera sincera e reale rispetto al resto. Guarda in macchina, si confessa alla macchina da presa, rimane a lungo in silenzio, ricomincia a parlare. E poi il suo volto viene sostituito da un “colpo di scena”: l’ultima immagine, un silenzioso totale, un’inquadratura ampia di un ampio spazio interno, privo di persone. L’inquadratura è lunga, la luce attraverso le finestre cambia spesso intensità. Lo spettatore deve smettere di entrare nelle facce e negli sguardi delle persone; anzi, è proprio costretto a interrompere la corrispondenza con l’altro attraverso lo schermo, non potendone più neanche sentire i discorsi. Si potrebbe anche pensare che Tsai abbia usato i propri personaggi come pretesto per raccontare il suo paese, mediante i loro racconti autobiografici improvvisati che trattano di tutto dai matrimoni combinati a Chiang Kai-shek. Ma nel momento in cui siamo posti di fronte a questo spazio vuoto, in cui nulla accade eccetto attraverso i vetri quando le nuvole (che non vediamo, rimangono fuori campo come Tsai) coprono la luce solare, capiamo che quello che è stato annullato e nascosto agli spettatori per tutto il resto dell’opera, lo spazio, in questo finale, diventa l’opera stessa – e la nazionalità diventa una cosa decisamente di secondo piano. Come in Stray Dogs, in cui la potenzialità di una parete bidimensionale diventava la potenzialità di penetrare oltre la bidimensionalità con l’immaginazione per andare a un livello successivo di profondità di sguardo, così il finale di Your Face sprona lo spettatore a costruirsi una visione di quello spazio per trasformare il fuori campo in campo, e il campo in parete immaginativa. Tutto è chiuso in quell’unico mondo geometrico e architettonico, e in questo senso l’apertura finale è un’estrema liberazione dai 4 lati dell’inquadratura, una crepa che porta a chiudere il film con la coscienza che questo sbocco sull’esterno è solo parziale rispetto a quanto lo spettatore, conoscendo il mondo esterno, possa superare questa parzialità includendo nel mondo del campo e del fuori campo il mondo reale, l’esterno, l’universo. «Il tuo volto» (quello di Lee Kang-sheng), o meglio «i vostri volti» (quelli di tutti i personaggi, anche Tsai che rimane invisibile), sono importanti, ma l’antropocentrismo non è una via contemplabile. Il primo piano va studiato per capire cos’è l’uomo nell’inquadratura, ma l’uomo nell’inquadratura non è tutto: era, questa, anche, in parte, la tesi dei corti di Walker, in cui il lento monaco scompare all’interno di una scenografia più complessa che lo divora nei suoi ritmi schizofrenici.
Ma se si pensa che la grandezza di Tsai si fermi all’aspetto puramente di indagine teorica all’interno dell’organismo del film, si compie un errore, soprattutto in questo caso; nonostante, infatti, non sia certo tra i film più importanti e interessanti di questo sommo autore, tra i più necesasri del panorama asiatico contemporaneo, è quello, tra gli ultimi, in cui di più Tsai riesce a sfruttare a 360° l’audiovisivo, grazie alla colonna sonora estremamente minimale di Ryuichi Sakamoto. Le poche note perfette composte dall’autore giapponese portano a creare un soundscape suggestivo che aiuta a completare le immagini, a trovare caratterizzazione ed emozione nell’apparente piattezza drammaturgica della semplice rappresentazione improvvisata del reale. In questo, il lavoro contemplativo di Tsai finisce per essere più che mai suggestivo e innovativo: è un’ennesima reiterazione prolissa, ma di un mondo interno ed emotivo che cambia in continuazione. E ciò è perché il regista di Stray Dogs è tra i pochi autori contemporanei che, pur usando la lentezza dei ritmi filmici in maniera tutt’altro convenzionale ai gusti del pubblico, riesce davvero a mettere in primo piano lo spettatore richiedendo da lui pazienza per poi fornire un’esperienza unica. Non vediamo mai il Sole, ma sapere che al di fuori il Sole c’è ci fa uscire dalla sala cinematografica con una più vera consapevolezza dei colori della natura. La chiusura porta all’apertura, come l’astratto porta alla concretezza. La cosa importante per Tsai è costruire la parvenza di un’esperienza spirituale, senza darne la percezione durante la visione; la completezza, la quadratura del cerchio, concretizza la forma del volto del film.
Nicola Settis