NHÀ CÂY (2019), di Trương Minh Quý
Che cosa potremmo vedere se fossimo su Marte ora e guardassimo giù giù fino verso la Terra? Bella domanda, soprattutto se la postulassimo nel 2045 e se lì volessimo girare un film. The Tree House, nell’originale vietnamita Nhà cây, è un film completamente scombinato, inconsapevolmente (di)storto, fuori asse. Un oggetto misterioso, dalla difficile collocazione e dalla quasi impossibile decifrabilità. Un film che riavvolge il nastro della presenza per riesumare immagini e frammenti. Immaginando un regista ipotetico che, a più di cinquantaquattro milioni di chilometri di distanza, nell’impossibilità di girare su un pianeta Marte ancora da scoprire, torna sul suo passato, riprende i rulli in Super16mm della sua vita precedente sulla Terra di cui sta perdendo la memoria a causa del lungo viaggio verso l’ignoto. Lavora su materiali delle minoranze Kor e Ruc, ai tempi dell’invasione americana nascoste nella grotte, fondendoli ai nuovi girati nello spazio con lo stesso senso di precarietà che potevano provare i vietnamiti mezzo secolo fa. La voce fuori-campo, quella del padre rimasto sulla Terra, confonde riflessioni esistenziali e politiche sul senso dell’abitare uno spazio e su quello, ancora più drammatico, della persistenza di un ricordo sfuggente e pieno di misteri. Mentre emergono quelle immagini slabbrate e corrose, e con esse tutti i frammenti che conservano, il nostro regista pare sempre più confuso tra le sue reliquie di ciò che è stato e le crisalidi di un tempo che sarà. O che forse mai più potrà essere.
Presentato fra i Cineasti del Presente di Locarno72, Nhà cây ci porta di fronte a uno scavo che trasla continuamente tra le credenze arcaiche di un Popolo e la sua impossibilità del ritrovarsi. Potrebbe essere girato nel fondo di un deserto come sul crinale di una montagna, poco cambia. Il contatto continuo con il dolore che emerge nella contrapposizione tra positivi e negativi, e quindi tra la vita e la morte, è la prospettiva di superficiale profondità del film in un rapporto bivalente e primitivo nei confronti con la realtà nuda, con l’identità corrotta e con lo sgretolamento della memoria. Lo sono le telefonate interstellari per rintracciare il segno di un passaggio remoto sulla Terra, e lo sono le piccole ossessioni di un desiderio di “casa” che lo spazio profondo si inghiottisce pian piano, facendo emergere solo stralci di immaginazione sempre più lacerati. Nel riavvolgersi del viaggio, e nello scomparire del film stesso, tornano molte domande dalla risposta impossibile, forse la metafora di quei tetti modellati in cattività. La narrazione è interrotta e stracciata, deformata del chiedersi che senso possa avere, disturbata dalla lontananza. Vediamo filmati amatoriali ed etnografici, atmosfere incolte fra le foreste del Vietnam; sterminati e splendidi verdi cosparsi di rocce, immagini di lutto, impressioni e frammenti di pensiero e materialità. Ogni fotogramma appare un ritorno su qualcosa che è stato: dagli anni dell’educazione alla difficoltà nei tempi di guerra, dalla precarietà di un esodo al paradosso della modernità. Sono le stesse immagini ora quasi a sgretolarsi, inghiottite dalla luce e abbracciate dal buio, quasi invisibili. Cosa rimane (dell’immagine) della Terra?
Forse addirittura al di là della sua volontà, il giovane regista, scrittore e montatore Trương Minh Quý de-costruisce sprazzi di metacinema estetico e politico di memoria e di resistenza, ritrovando nel rapporto tra forma e sostanza dell’immagine lo sguardo di minoranze quasi estinte che non possono che riflettere sulla superficie dello stare qui. Affronta lo sfruttamento (anche del vedere), affronta la fine, affronta il compimento di un percorso di riflessione sul nostro pianeta che oramai esclude la vista. Tutto è liquido e incerto, come dissestato, e il film si disperde, non trova il filo del suo essere proprio come il suo autore/attore. Pare di entrare in una specie di buco nero, dove lo spazio e il tempo vengono distorti e disturbati, compressi e complicati nella loro sintassi per immagini provvisoria e discontinua. C’è il dramma della contemporaneità che ha portato all’annullamento progressivo della nostra presenza, dove la poesia diventa affermazione dello straziante processo di decadimento della memoria, la sua realtà oscura e fallibile nella condizione umana del passaggio sempre più stilizzato e informe. E quindi un film che, anche senza forse troppo volerlo, diventa terribilmente esistenziale tra lo spettro di una natura sempre più lontana e l’ineffabile vicinanza della/alla morte; nel dialogo con il vuoto più spaventoso, con l’oblio più disperato. In positivo è ciò che (ci) rimane, in negativo quello che oramai è perso. Apparentemente banale come dicotomia, brilla invece nella sua pura essenzialità del contatto con una fisicità altra (e alterata) dalla distanza, della perdita di tutto ciò che non è stato filmato o registrato. Come quando il nostro regista folle e disperso si trova inconsapevolmente a riprendere un qualcosa che non ricorda (la danza del copri-obiettivo della Varda), o come quando lo schermo vira – finalmente – a nero, ed emergono le sole parole del leggendario cosmonauta Pyotr Klimuk sulle nostre immagini e sui nostri ricordi (o forse viceversa). E così sia.
Erik Negro