NEVERMIND (2018), di Eros Puglielli
Viviamo in un mondo egocentrico, individualista, incoerente ai limiti dell’illogico, in cui l’uomo è sempre più provinciale, superficiale, limitato nell’elaborazione delle informazioni. Viviamo in un mondo che distorce la percezione della realtà inseguendo la soddisfazione personale, la centralità di un individuo sempre più incapace di guardare ai suoi simili, la scorciatoia e non il reale tentativo di comprendere e risolvere i problemi. Viviamo in un mondo di rapporti interpersonali avvizziti in un’inciviltà sotterranea, fatta di doppie vite, di egoismi, di pubblico e di privato fra le più insospettabili perversioni e la più rispettabile facciata. Viviamo in un mondo sospeso fra lo spiegabile e l’incomprensibile, fra il noto e l’ignoto, fra il reale e l’assurdo, fra il segreto e il palese passando per l’apparente, o se si vuole pensarla in termini teorici fra il visibile e l’invisibile, fra il corporeo e l’immateriale, fra il campo e il fuoricampo, dove nemmeno i fish-eye dei grand(issimi)angoli di Eros Puglielli riescono a trovare ciò che apparentemente non c’è ma che nel momento in cui è creduto acquisisce importanza, centralità, vita. Forse fede, di certo condizionamenti. Dove l’uomo vinto dalla sua immaginazione non riesce più a vedere né sentire gli altri, un ventre gonfio può non annunciare necessariamente una gravidanza, non vedere e non sentire una persona non implica necessariamente che questa non esista, e mentre i clienti non sanno nulla delle immonde depravazioni del proprio stimato avvocato le segretarie che magari le spiano disgustate attraverso il buco della serratura le conoscono alla perfezione. E, pur tentando di contrastarle, non possono fare altro che subirle, esasperate e impotenti. Parte da questo assunto al contempo antropologico e psicologico Nevermind, ritorno di Eros Puglielli ben quattordici anni dopo Occhi di cristallo a un film concepito e realizzato per il grande schermo del cinema, con in mezzo l’AD Project realizzato direttamente per l’home video nel 2006 e una (nemmeno troppo) lunga serie di lavori televisivi. Parte dall’osservazione di una realtà in cui la determinazione e la forza del singolo servono solo al raggiungimento di una pace illusoria, puerile, frivola, e con intelligenza e spirito ribelle innesta le vanità accentratorie dell’uomo nel grottesco, nel surreale, nell’ipertrofico. Magari – caratteristica quasi inevitabile in un progetto a episodi e dalla così lunga gestazione, scritto e girato nel corso di oltre tre anni collaborando con gli attori e con tutte le parti in causa – con qualche slabbratura, con qualche momento un po’ più ondivago, con qualche caduta di tono fra un’intuizione e l’altra (in questo senso il terzo episodio, pur pienamente sensato nel dipanarsi del percorso umano e indubbiamente spassoso fra giri di “spugnetto”, doppi sensi e case del mugnaio, appare forse più demenziale e meno ispirato degli altri), ma con una ben precisa, coerente e per molti versi illuminante idea di fondo, che lega a doppio filo (non) vedere e (non) percepire.
Ben al di là degli incastri narrativi in cui i personaggi secondari di un episodio diventano protagonisti di quello successivo, ben al di là della cornice narrativa delle disavventure dello psicologo interpretato da Paolo Sassanelli che ben incarna tutto il trauma e lo spaesamento che il sempre estroso e brillante Eros Puglielli vuole evocare, ben al di là dell’ironia e della profonda libertà con cui il regista romano, sorta di “padre” del cinema indipendente italiano a basso costo sin dall’esordio del 1995 con il VHS di Dorme, continua anarchicamente a rifiutare qualsiasi imposizione e a staccarsi dalla massa e da ogni regola precostituita, c’è un’osservazione psicologica, o forse sarebbe meglio dire neurologica, che permette a Nevermind di mettere in scena l’egoismo patologico che affligge la condizione umana attraverso la sua (in)capacità di vedere e di rapportarsi a ciò che (non?) ha di fronte. Che poi nient’altro è che quella coincidenza fra vedere e sapere che già il greco antico portava in dote con uno dei suoi verbi irregolari più bizzarri – οἶδα, perfetto di ὁράω, che oltre a “ho visto” vuole dire “so”, passaggio concettualmente successivo all’avere assistito a una manifestazione della realtà. In una sorta di sinfonia cinematografica multiforme e polifonica, fatta di movimenti solo in apparenza scollegati e immotivati ma che sono in realtà (il)logicissime facce della stessa medaglia, Puglielli lavora quindi sul visibile e sull’invisibile, sul (sur)reale e sull’immaginato, su ciò che si può (o non si può) percepire e sul peso che ha nella società. Fra l'(in)credibile e il paradossale, mescola l’egoismo di un pirata della strada che scappa senza prestare soccorso con quello di una gravidanza isterica o forse addirittura di un figlio immaginario da sfoggiare a se stessi e per il quale pretendere cure e amore, quello di chi non riesce a staccarsi dal paese natale e dalla famiglia fino a far emergere un presente inquietante e incestuoso con quello dell’avvocato “ravanatore” che sublima i suoi complessi sessuali nel contatto fisico del suo organo con gli oggetti che “gentilmente”, fra sigarette e caramelle, offre agli altri, fino a quelli di chi da una parte invade gli spazi altrui fino a farli impazzire, e di chi dall’altra si autoprotegge immaginando la sparizione dei nemici fino a perdere il controllo sulla propria fantasia e a rimanere solo al mondo. Il nuovo lavoro del regista romano è un mosaico di derive inspiegabili, assurde, non necessariamente motivate né contestualizzate eppure sempre sensate, pienamente coerenti nel concorrere a dipingere le incongruenze della condizione umana, gli effetti psicologici devastanti del non saper più (con)vivere, e non certo in ultimo l’amarezza di fondo che emerge dalla superficie delle risate. Perché Nevermind, nel suo umorismo tagliente e irresistibile nell’alternare la finezza alla grana più grossa, nel suo dipingere con acute vette di surrealtà la follia e le follie dell’uomo, nel suo addentrarsi con urticante ironia e totale libertà nelle meschinità e nelle perversioni di oggi e nel suo giocare apertamente con l’inspiegabile e con gli equivoci, è un film di sconfitta e di sconfitti, di (auto)emarginati anche nella più alta società borghese, di drammi personali privi di una possibile soluzione. Di aspre cene in famiglia, di amori che finiscono per salvare un’impresa, di licenziamenti che chiudono ogni rapporto e ogni illusione, di incidenti, di persecuzioni, di corpi riversi a terra, di stimati professori di psicologia che non riescono più a dare consigli nemmeno a se stessi. Magari per colpa di un bombolone, o del prendersi troppo sul serio.
Nevermind è una brillante commedia, Nevermind è un thriller nemmeno privo di tensione, Nevermind è un western metropolitano di sguardi e di cambi di ritmo, giocato sulle focali che si allargano e su una scrittura sagace, perspicace, ficcante. Nevermind è un paradosso cinematografico (lucidamente) psicotico e (narrativamente) psichedelico, libero e folle nel muoversi in direzioni inaspettate, che racconta i paradossi della società inoltrandosi (solo apparentemente) senza bussola nelle sue quotidiane follie. Nevermind è ossessione, mania, aberrazione, Nevermind è logiche oscure, incroci, eventi sconcertanti che si susseguono con altrettanto sconcertante naturalezza. Nevermind è un UFO, un alieno, un calderone cinematografico orgogliosamente inclassificabile che forse proprio per questo non viene sufficientemente capito e sostenuto da chi potrebbe farlo – avrebbe meritato palcoscenici ben più luminosi della sezione Panorama Italia, laterale all’interno di Alice nella Città, a sua volta laterale e indipendente in quella kermesse sempre più laterale che è la Festa del Cinema di Roma secondo Antonio Monda, ma non si può fare altro che accontentarsi. Il film di Puglielli lambisce l’illogico, e anche fra le smorfie di chi a torto storce il naso trova proprio in ciò che è più inspiegabile il suo senso più profondo, il suo riflettere sull’uomo e sul cinema, il suo continuo ribattere fra il visto/noto e il non visto/celato, ben sapendo che anche quest’ultimo – vero oppure no, spiegabile o meno, non è questo che conta – è sempre presente nelle forme più inimmaginabili. Il bambino che la baby-sitter non riesce a vedere è una proiezione mentale dei genitori squilibrati oppure è lei non in grado di distinguerlo, proprio come il cuoco ossessionato dalla volontà di elidere il nemico viscido e narciso che lo disturba non riuscirà più a vedere anima viva? E la svampita vicina di casa che cambia ogni giorno versione, prima dicendo di odiare i bambini e di non conoscere quello invisibile, poi di amarli alla follia e di essere felice di viverci accanto, e infine racconta nei dettagli la loro storia salvo rendersi conto alla fine che era quella di tutt’altra famiglia, non sarà forse l’unica rimasta lucida, o per lo meno l’unica che non si nasconde dietro a una maschera talmente radicata da diventare una personale realtà falsa e costruita? Così come il brillante neurologo da star radiofonica sarà destinato, a furia di ripetuti incidenti con un carro attrezzi, a perdere del tutto la lucidità in un rivoletto di sangue che scende dall’orecchio e in una continua retromarcia verso quel bombolone maledetto, Nevermind accompagna nei meandri dei suoi quattro episodi (cinque contando il prologo/epilogo/cornice/collante) e mostra gli equivoci, le impressioni, gli eventi inspiegabili che costituiscono l’inspiegabile quotidianità dell’uomo. Perché, nelle sue esagerazioni mai stereotipate, nelle sue slabbrature, nei suoi sbalzi e nelle sue zoppie narrative, Eros Puglielli guarda, oggi come ieri, alla realtà, e il suo sguardo surreale, libero, divertito eppure sempre profondo, non è altro che il suo prezioso e drammaticamente sottovalutato modo di rappresentarla, di (ri)pensarla, di farla sua. E di chi amerà abbandonarcisi. Ridendo fino alle lacrime.
Marco Romagna