14 Settembre 2020 -

NEVER GONNA SNOW AGAIN (2020)
di Małgorzata Szumowska e Michal Englert

Se non esistesse più un posto sulla terra dove essere se stessi? E se fosse addirittura l’esistenza del “se stessi” a essere in bilico? Congelata in una pallina di vetro, immobile, sospesa, in attesa di essere scossa e liberata. Se è ancora possibile.
Che l’uomo sia animale sociale lo ha già detto Aristotele, quanto l’appellativo possa prevalere sul sostantivo è prerogativa di drammaturghi e registi da sempre. Małgorzata Szumowska discioglie la sua riflessione in un ricco quartiere residenziale di Varsavia, come una versione dissacrata (ma non dissacrante) e assurda del condominio del Decalogo del conterraneo Kieslowski. Un quartiere in attesa della neve, che quest’anno, pare, non verrà. Il freddo dell’est europeo diventa allora un freddo sterile. La fotografia segue: nitida, pulita. Tutto è simmetrico, lineare, anche il disordine della prima casa che vediamo, la mattina dopo una festa, in qualche modo lo è. Tutto è geometria. Le villette a schiera (stratagemma già in uso e perfetto per l’orchestrazione visiva dell’inquietudine del vivere organizzato), racchiudono l’universo domestico che interessa Szumowska: pochi nuclei famigliari, apparentemente omogeneizzati, in un’atmosfera estraniante. L’unico tocco di diversità appoggia di fronte alla porta come una nota formale di benvenuto e di avviso di ciò che si troverà dentro. È la ghirlanda natalizia, di materiali e forme lievemente differenziate. Ci si chiede se questo elemento rappresenti in qualche modo un carattere del nucleo in cui si entrerà.
A questa superficiale (nel senso vero del termine) assenza di vita, corrisponde una regia altrettanto mortifera: rallentata, distaccata, immobile. La luce invade, bianchissima e vuota. È sotto questa infatti che si richiede, ai personaggi quindi a tutti gli uomini, di rivestire il proprio ruolo, qui inscenato con tocchi di quello che si potrebbe definire un surrealismo poetico.

In questo mondo, chiaramente infelice e per lo spettatore ansiogeno, entra uno straniero, come sempre metafora di cambiamento o di smascheramento. Zenia è un massaggiatore ucraino. È ingenuo e muscoloso, e c’è qualcosa di strano in lui. Qualcosa di profondamente umano e profondamente sovraumano. Il nome è di origine greca e dice molto: risuona l’antico concetto di ospitalità, un rapporto sacrale, fatto di scambi, di doni, di legami che diventano indissolubili per generazioni. Di nuovo il cinema racconta un ospite venuto a creare scompiglio, per certi aspetti una versione apolitica e più soft del Teorema di Pasolini, se non direttamente una moderna metafora cristologica. Se Cristo non era venuto a portare la pace ma la spada, Zenia non porta luce ma buio. E lì che si rifugia il “se stessi” di cui ci si domandava. Infatti è un buio caldo. Quello dei sogni, dell’ipnosi, del proprio mondo interiore, dei propri desideri passati, delle proprie ossessioni. Ognuno, in fondo, è i suoi segreti.
Il quartiere viene scosso in maniera graduale. Zenia di fatto non fa, non si nota una chiara volontà in lui. Si limita a creare contatto in un mondo in cui questo sembra completamente assente. Contatto prima di tutto con il corpo.
Ossessione della regista sin dai tempi di Ciało, premiato a Berlino nel 2015 per il modo asciutto con cui ha reso appunto i Corpi protagonisti tormentati e tormentosi della pellicola, dalla giovane bulimica, al padre vedovo e trascurato, alla psicoterapeuta e medium che ha perso un figlio, a vivere sono ormai quasi solo più questi. Corpi maltrattati dal dolore dell’anima, prigioni e al contempo vie d’uscita dalle stesse; corpi attraverso i quali si possono cercare di liberare le tensioni interiori, ma anche corpi dai quali non si può uscire. Una corporeità ritornata nel frattempo protagonista anche della pellicola successiva Twarz (2018, ancor meglio nota con il titolo internazionale Mug), anch’essa successo alla Berlinale e racconto di come un altro volto porti a Un’altra vita.
Un corpo schiacciato nei suoi bisogni da una bigotta e delirante chiesa cattolica, ma al contempo e per paradosso ritenuto dalla stessa profondamente connotativo della persona, al punto che gli si richiede armonia estetica, sempre. Quando questa viene a mancare, come nel caso del protagonista vittima di incidente sul lavoro, si giunge a ritenere che l’anima sia stata in qualche modo intaccata, se non addirittura posseduta. L’intero paese gli volta le spalle.

Szumowska torna a riflettere sul legame tra la nostra identità, la nostra intimità e la materia di cui siamo fatti, e con Never Gonna Snow Again giunge a vette sublimi di visionarietà.
L’assenza di fisicità sembra essere l’ultima frontiera della distopia (il Covid ha portato a comprendere quanto imprescindibile bisogno dell’uomo sia il toccarsi vicendevole della specie). In un mondo distaccato e dis-toccato, Zenia tocca. Con i suoi massaggi sfiora, schiaccia, accarezza, accompagna, guida. La sua presenza crea calore, percepibile, udibile. Il rumore dell’olio che scorre sulla pelle, le mani appoggiate sulle spalle, gli schiocchi delle dita, il tocco degli asciugamani. Le donne si innamorano di lui, gli uomini ne sono in qualche maniera catturati. Diventa subito guida. Rappresenta il disordine, la nota stonata di una sinfonia insopportabilmente lineare. Vede cerchi dove gli altri vedono punti. Sentimento laddove gli altri ragione. Eppure ci sembra impassibile, saggio, senza bisogni. Il più umano e al contempo il meno umano di tutti. Al di sopra della psicosi immobile alla quale il pubblico è chiamato ad assistere: una madre di famiglia sessualmente frustrata e con problemi di alcool, una giovane e sensuale “widow-to-be” (l’unica con cui ci sarà contatto sessuale), una algida vedova di mezza età, una quarantenne grassa, esagerata e ossessionata dai bulldog, e poche altre punte di questo cristallo poliedrico, duro ma fragile. Il ritratto di un’umanità inquieta al punto da risultare inquietante.
La spinta di Zenia è silenziosa ma vitale. È esterno, guarda da fuori. Passa quasi inosservata la scena in cui, al fianco del custode del complesso residenziale, ride di fronte alle telecamere di sicurezza. Il passaggio sancisce in qualche modo il suo ruolo, che non è pirandelliano. Zenia non è il “filosofo del lontano”, il Leona Gala del Giuoco delle parti, che osserva e, superiore, si beffa con distacco. Non c’è disprezzo in Szumowska, semmai pena e volontà di salvezza. Sciogliendo le tensioni del corpo, il nuovo “guru” spegne i riflettori esterni (al suo passaggio, in un punto del film, letteralmente i lampioni cessano di funzionare uno dietro l’altro) per accendere l’interruttore interno. È questo il vero contatto che innesca, letteralmente con uno schiocco di dita, quello che porta al sonno dell’ipnosi. Lo spettatore allora può entrare nell’innerworld, quindi nell’underworld dei personaggi. Sono visioni buie, disordinate, sporche, inquinate. C’è sospensione, inquietudine. È surreale, o sub-reale. E paradossalmente c’è più calore e sincerità che nel resto del film. Sono tra i pochi momenti in cui è possibile tirare un sospiro di sollievo, ritrovarsi comodi, perché si riconosce finalmente l’umano. Anche la macchina da presa riprende vita, traballa, insegue e accompagna. E i personaggi ritrovano unione con il loro sé, che tendenzialmente riemerge in un passato sepolto ma mai superato, un passato defunto ma ancora vivo, risolto in un ricongiungimento onirico con i veri affetti: un padre, una madre, un marito, non più corpi in vita, ma ancora presenti.

Anche Zenia ha un suo underworld. Le sue visioni sono dei viaggi che trascinano il pubblico in un luogo caldo, giallognolo e ventoso di pulviscoli, simile ai cristalli di una neve che ancora era possibile ma che scopriamo essere radioattivi dopo il disastro di Chernobyl (si conoscono dall’inizio le origini del misterioso uomo, nato nella città fantasma di Prip’’jat). Un disastro che si può intuire aver rivestito il giovane di capacità superiori, rendendolo così oltretutto una sorta di versione poetica, intimistica ed esteuropea di un supereroe. Le sue abilità sono straordinarie nel senso di fuori dall’ordinario, con ciò si intende non tanto il sensazionalismo del suo “dialogare” con la materia (è in grado di smuovere gli oggetti), ma la sensazionale capacità di guarire, proprio tramite un senso, quello del tatto. Vittima di una catastrofe, oggetto di scarto di una società che si presenta subito ostile (non manca in apertura una battuta razzista contro l’Ucraina), di nuovo è il diverso e il reietto ad essere salvatore. L’eco biblica torna a risuonare.
Ecco allora che l’attesa della neve diventa attesa di verità. Con la v minuscola, certamente. Attesa della propria verità, di sincerità, la piccola e unica salvezza personale, in un mondo comunque laico e secolarizzato. La neve è “magica”, come Zenia. Si posa sulle cose del mondo come una coltre identica, ma “i fiocchi sono tutti diversi”. Diventa quasi una metafora sociale, che non c’è bisogno di spiegare. Così come l’albero nato dalle ceneri di un uomo defunto reso compostabile, e quindi in qualche modo tornato corpo nel legno, ritorna nuovamente morte poiché abbattuto e costretto nel tritatutto, tale è il trattamento dell’individuo nella società. È difficile infatti separare le immagini del tronco ridotto a pezzetti tutti uguali, che in una scena del film vengono sputati fuori con violenza indifferente, dal pensiero che questo sia ciò che avviene, su un piano non fisico ma spirituale, al singolo.
Entrando sempre di più nell’intimità degli abitanti di questa bolla traballante, in perpetuo bilico tra scoppio e cristallizzazione, la “magia” di Zenia, performata tramite l’ipnosi, non sarà allora quella di aprire loro gli occhi ma di chiuderli, lasciando che sia ognuno ad osservare le proprie più intime angosce, i propri fantasmi e il proprio malessere.

Never Gonna Snow Again, candidato al Leone d’oro a Venezia77 e in lizza per rappresentare la Polonia ai Premi Oscar 2021, è allora un inno al buio e alla verità di ognuno di noi. Inno peraltro realmente inscenato nell’unico momento in cui tutti i cittadini si ritrovano nello stesso luogo, al saggio di fine anno della scuola locale, quando i bambini, come sempre portatori di istanze di autenticità, omaggiano in coro e in francese i “fiori della notte”.
Una volta svolto il suo compito, destando uno stupore più plateale rispetto a quello graduale con cui era entrato nelle loro vite e con una performance di ballo e magia paradossalmente erotica e spensierata rispetto al tono di tutto il film, Zenia scomparirà nel nulla, su quello stesso palco in cui poco prima, due tipi di pubblico, quello del teatro della scuola varsaviana e quello della sala cinematografica, avevano sperato nella vittoria della speranza di salvezza. Ed è questa che, di nuovo chiude la narrazione. La neve cade, infatti, contraddicendo il titolo.
Si è portati a domandarsi se sancisca l’inizio del metaforico disgelo o meno, se l’individuo infine sia stato liberato e sia pronto a riemergere, librarsi nel caos come quei tanti fiocchi finalmente visibili che cadono, disordinati e diversi. Se sia pronto a sporcare la luce delle apparenze e dimenticare lo «Shh, ti vedono tutti».
Zenia intanto è sparito (di nuovo l’idea di un Cristo laico si fa strada) ma rimane ospite. Ospite adesso delle sue stesse visioni: lo rivediamo bambino nei suoi sogni colorati, magari è questa la dimensione innocente e pura che gli compete, magari in attesa della prossima missione. Non sappiamo se questa, consapevole o meno, sia compiuta. Ma ciò che questa neve sembra significare, è che la pallina di vetro è stata scossa, e forse la statuina può entrare in vita.
Che sia con la risata tra un padre e una figlia forse ritrovati (Ciało), con un pullman che parte verso un nuovo inizio (Twarz), o con una semplice nevicata, lo sguardo di Szumowska, pur nel dramma, è di speranza.
Conclude però con una nota: dal 2025 gli esperti dicono che in Europa non nevicherà più. Che sia un avvertimento?

Bianca Montanaro

“Masazysta” (2020)
N/A | Poland
Regista Malgorzata Szumowska
Sceneggiatori N/A
Attori principali Maja Ostaszewska, Borys Szyc
IMDb Rating N/A

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