En Chile no hay libertad de palabra, no se vive libre de temor. Centenares de hombres que luchan por que nuestra patria viva libre de miseria son perseguidos, maltratados, ofendidos y condenados.
En este 6 de enero de 1948, siete años justos después de aquella declaración rooseveltiana, soy perseguido por continuar fiel a las altas aspiraciones humanas y he debido sentarme por primera vez ante un tribunal por haber denunciado a la América la violación indigna de esas libertades en el último sitio del mundo en que yo hubiera deseado ocurriera: Chile.
Esta acusación de que se me hace objeto es historia antigua. No hay país, no hay época en que mi caso no tenga ilustres y conocidos antecedentes. ¿Se deberá ello a que en los países se repiten periódicamente los fenómenos de traición y antipatriotismo? No lo creo. Los nombres de los que fueron acusados livianamente son nombres que hoy día todo el mundo respeta; fueron, una vez pasadas la persecución y la perfidia, incluso dirigentes máximos de sus países y sus compatriotas confiaron en su honradez y en su inteligencia para dirigir el destino de sus patrias y ellos llevaron siempre como un timbre de honor, el máximo timbre de honor, la persecución que fueron objeto.
Pablo Neruda, Yo Acuso
Il Cinema di Pablo Larraín, 39 anni e già 6 film all’attivo in questa prima decade di carriera, è sempre stato un oggetto meravigliosamente oscuro e spiazzante, un vortice di linguaggi e di complesse letture del potere e della violenza, un continuo viaggio – a volte in poche stanze – politico e squisitamente autoriale nella Storia del Cile. Fuga, affascinante sinfonia cinematografica di musica, fato e follia, era un film d’esordio che Pablo Larraín aveva nel cassetto da molto tempo, in grado di mostrare già nel 2006 tutto il talento visivo e nella minuziosa direzione degli attori da parte del regista, ma è dall’opera seconda Tony Manero, primo episodio della trilogia su Pinochet, che inizia la vera e propria filmografia “di Larraín”. Una filmografia che penetra la Storia, la vive, la rielabora, si interroga e trova risposte, oppure mette in luce proprio la mancanza di risposte possibili. Una filmografia che sviscera la marcescenza del potere e il suo aspetto più inumano, una filmografia allegorica, metaforica e paradigmatica, che inserisce la storia nella Storia e si leva come un urlo – a volte gioioso, più spesso straziato – di libertà. Una filmografia militante, apertamente antifascista, reazione e voglia di raccontare di un Popolo liberatosi troppo tardi dal giogo oppressivo della dittatura.
Pablo Larraín – molto spesso con il volto del sodale Alfredo Castro, a volte con quello di Gael Garcìa Bernal, questa volta con entrambi ma affidando il ruolo del protagonista (sempre ammesso che il protagonista di Neruda sia solo uno) Pablo Neruda a uno strepitoso e particolarmente somigliante Luis Gnecco – ha messo in scena nella ieraticità straniante di Post Mortem la fredda vendetta e l’incapacità di provare emozioni neppure quando giunge all’obitorio il corpo del Presidente Socialista democraticamente eletto Salvador Allende; ha messo in scena in NO! I giorni dell’arcobaleno il mondo pubblicitario e l’immaginario televisivo degli anni Ottanta per raccontare il referendum che nel 1988 rovesciò finalmente il governo militare di Augusto Pinochet; e una volta chiusa la trilogia ha puntato dritto sulla chiesa, ma in realtà sulla società contemporanea tutta, con El Club, film che inaugura la fase sovraesposta e in controluce di Larraín, recentemente definito “scabroso e sconsigliato” da una CEI incapace di leggere al di là della storia dei preti pedofili, o forse sentitasi chiamata in causa proprio dalla decisione di punire i colpevoli “in famiglia” e al contempo insabbiare tutto per un presunto bene maggiore: in sostanza, salvare la faccia.
Nei suoi dieci anni di carriera, Pablo Larraín ha saputo ritagliarsi un posto d’onore nell’Olimpo cinematografico, sempre capace di cambiare e al contempo di rimanere fedele a se stesso e alla sua poetica-politica, sempre capace di spiazzare e di devastare lo spettatore, sempre capace di sperimentare forme e contenuti nuovi. Con Neruda, nuova fatica presentata in Quinzaine des Réalizateurs (perché non in Concorso, peraltro con ottime possibilità di vincerlo?) al sessantanovesimo Festival di Cannes, Larraín firma forse il suo film più smaccatamente politico, confermandosi ancora una volta – e sempre più – come uno dei maggiori registi viventi. Non era infatti mai andato, nella sua filmografia passata, a sviscerare apertamente personaggi politici, aveva sempre preferito tenerli ai margini, come in uno studio degli effetti più che delle cause. Quello messo in scena in Neruda è invece un (in buona parte falso) biopic che si concentra proprio sul versante più militante del poeta e diplomatico, e (solo) apparentemente meno su quello artistico. Ciò che Pablo Larraín vuole confezionare è un film non tanto su Neruda, ma piuttosto un qualcosa di smaccatamente à la Neruda, capace di rivelarsi al contempo un’acuta lettura e un accorato omaggio al simbolo della resistenza cilena e premio Nobel per la letteratura. Neruda è quindi una sorta di raccolta di poesie, sono sequenze cinematografiche ondeggianti in un meticciamento di generi dal biopic fino al western, passando per accenni di commedia e per l’aura splendidamente noir e surreale che avvolge l’intera narrazione. Fotografato, come del resto il precedente El Club, in un digitale sovraesposto eppure cupo, spiazzante nella granulosità innaturale dell’immagine e nei colori leggermente desaturati e virati ora al rosso, ora all’azzurro, per quanto necessariamente molto meno minimale nelle ambientazioni, Neruda si snoda sinuoso fra arte e politica, fra scrittura e puttane, fra cacciatore e preda, fra eroe e propria nemesi. Fino a quando la finzione non diventa realtà e la realtà diventa la più pura finzione, in un crescendo poetico inizialmente lasciato a parentesi quasi surreali e via via sempre più presente, fino a diventare vero e proprio protagonista del film.
Rispetto alla trilogia su Pinochet, Larraín fa un ulteriore passo storico all’indietro e torna al 1948, quando il generale e futuro dittatore era, non a caso, comandante in capo dei campi di concentramento e sterminio per i Comunisti istituiti da Videla, eletto democraticamente e con l’appoggio di Neruda salvo tradire ben presto poeta e Paese trasformando il governo in autoritario e svendendosi alle destre. Sono gli anni dei desaparecidos, sono gli anni del Yo acuso di Neruda in Parlamento e dei successivi 13 mesi in fuga attraverso le Ande per evitare l’arresto e la condanna a morte, sono gli anni del lungo esilio in seguito alla fuga messa in scena da Larraín, sono gli anni che il poeta passò dedito all’organizzazione clandestina della resistenza contro Videla, sono gli anni – non certo i primi e purtroppo non gli ultimi – della repressione e della militarizzazione in Cile. Pablo Larraín sorvola ancora una volta la Storia e l’oppressione, ben attento a omaggiare il personaggio di Neruda senza però glorificarlo, mostrandone vizi e virtù, ragionando sulla sua vicinanza ideale al popolo quasi in opposizione alla sua radicata natura borghese e aristocratica, vestendolo da donna nei bordelli per salvarlo dalla retata e di tutto punto dal sarto, facendogli regalare un cappotto a una bambina infreddolita per strada ma anche costringendolo più volte a mentire, a sua moglie, allo Stato, alla polizia di frontiera, all’ingenua militante alla quale dirà che dopo la Rivoluzione non esisteranno più poveri.
La complessità è sempre stata per Larraín un’ossessione: la complessità della Storia, la complessità del potere, la complessità della politica e della società, la complessità dei personaggi. La complessità della scelta fra salvarsi o diventare un martire e un simbolo per i secoli a venire. Complessità che però forse, ancor più che da Neruda, viene incarnata dalla sua nemesi, il prefetto Peluchonneau, interpretato da Gael Garcìa Bernal, voce narrante del film e inseguitore instancabile in un tira e molla degno dei migliori thriller. Figlio di una prostituta e quindi senza padre, ha sempre considerato come figura paterna la divisa della polizia, ma si ritroverà a rendersi conto di essere in realtà figlio del Popolo, come tutti, e forse addirittura parte di un libro, un personaggio creato dal poeta stesso, in sostanza un figlio di Neruda, in un racconto di poliziotti tragici e fuggitivi, di giochi del gatto col topo fra continui avvicinamenti, nuove fughe e letture che avanzano. E nella sua morte, il discorso sull’arte che progressivamente impregna il lungometraggio trova il suo apice: è come se Neruda gli avesse donato una vita migliore o quantomeno una morte migliore della vita, è musica e poesia, è il ribaltamento definitivo con la preda che trova il cacciatore e lo omaggia con tutti gli onori che si devono due personaggi che si sono creati a vicenda. Non esistono, del resto, personaggi principali e secondari, c’è solo la magia del racconto, ci sono le parole in poesia per Neruda, ci sono le immagini in movimento per Larraín. Ci sono la realtà e la lirica. Ci sono gli occhi di nuovo aperti verso la Storia.
Con Neruda, Pablo Larraín firma un film politico e poetico in cui “nerudizza” fatti reali, eventi surreali, resistenza politica contro il fascismo e ruolo delle arti nella Storia e nella società. Fra inseguimenti nella neve di recentissima e tarantiniana memoria, ingenui compagni di partito, segni del proprio passaggio come veri e propri indizi lasciati da Neruda per permettere a Peluchonneau di seguirlo rendendolo un martire in fuga, splendidi – e splendidamente anni ’40-’50 in contrasto con l’immagine così smaccatamente digitale – trasparenti per le sequenze in automobile, una voce fuori campo per lunghi tratti meravigliosamente fuorviante e un Alfredo Castro nel ruolo di Videla che guarda impassibile dalla finestra mentre Neruda lo provoca con il clacson, Pablo Larraín declina ancora una volta le proprie acute riflessioni sul potere, sul Cile, sul ruolo sociale dell’uomo, sulle scelte più devastanti, sul ruolo dell’arte nella politica (“Siamo pieni di grandi intellettuali Comunisti”) e sui fascismi. Quando Neruda riuscirà a scappare dal Cile – per farci ritorno pochi anni più tardi, sostenere Salvador Allende e morire in circostanze misteriose immediatamente dopo il colpo di Stato di Pinochet – con tanto di barba da boscaiolo e passaporto falso, si rifugerà infatti in Francia, accolto da un Pablo Picasso in contemporanea lotta contro il franchismo e in contemporaneo esilio al di là dei Pirenei. Come a dire che la poesia incontra la pittura, che la militanza incontra un’altra militanza, che un Popolo incontra un altro Popolo, mentre i fascismi sono tutti uguali e tutti abietti.
Con Neruda, Pablo Larraín firma ancora una volta un film notevolissimo, spiazzante, corposo, denso, ragionato, resistente: splendido. L’ennesimo film straordinario della carriera di un trentanovenne che pare avere una fonte inesauribile di domande da porsi e di concetti da affrontare, l’ennesima conferma che ci troviamo di fronte a uno degli Autori più grandi del presente e degli anni a venire. L’ennesimo passo, insomma, di un regista davanti al quale non possiamo che genufletterci, aspettando pazientemente che sforni il prossimo capolavoro. E non mancherà di farlo, ne siamo sicuri! Probabilmente già da quel Jackie attualmente in postproduzione e annunciato per il 2017 (edit: in Concorso già a Venezia 2016 e premio per la migliore sceneggiatura), che a questo punto fatichiamo sinceramente ad aspettare.
Marco Romagna