NELLA CITTA’ L’INFERNO (Director’s cut) (1958), di Renato Castellani
La risata nervosa della sublime Anna Magnani, la sua ironia amara, la sua recitazione quasi ancestrale, di pancia e di membra. Nel suo sguardo attonito, magnetico ed emozionante, che da Roma Città Aperta a Mamma Roma, passando per Bellissima, ha scritto intere pagine di storia del Cinema, si cristallizza tutto il dramma della vita carceraria. Nella città l’inferno, film del ’58 riproposto nella capitale emiliana nel corso della retrospettiva su Renato Castellani, rappresenta forse uno dei punti più alti della carriera dell’attrice, talmente aggressiva nella recitazione da fagocitare tutto quel che le sta intorno, compresa una Giulietta Masina fresca di Oscar che letteralmente sparisce dallo schermo. Il 35mm che risplende sugli schermi bolognesi del Cinema Ritrovato è la versione originale, montata da Castellani, scevra da quegli interventi della produzione pronti a rigirare l’ordine delle scene, alla ricerca di un insensato lieto fine, che tanto avevano infastidito il regista ligure e che compongono il film come lo si era sempre potuto vedere.
Nella città l’inferno si apre con le sbarre del carcere delle Mantellate, sezione femminile di Regina Coeli. L’ambientazione romana, come ci viene espressamente detto da una didascalia, è dovuta principalmente a necessità produttive, quello che importava a Castellani e Suso Cecchi D’Amico era il carcere, inferno in città ma anche e soprattutto inferno interiore, non-luogo di alienazione e difficoltà nel quale, prima o poi, si cambia. Alle due interpreti professioniste, in aperta rivalità fra loro e quindi pronte a trasporre sullo schermo tutta la loro rabbia ed il disagio nel lavorare insieme, vengono affiancate donne di borgata, trasteverine d’altri tempi che la realtà carceraria la conoscevano fin troppo bene. Il risultato è sorprendente, con un’agrodolce commistione di neorealismo e melodramma pronta ad esplodere in un atlante sentimentale di contrasti e dialettica, un film sul destino, emblema del malessere del tempo e delle difficili condizioni, tuttora irrisolte, della detenzione. Pensando al sovraffollamento delle carceri e alla straniante disumanizzazione dei CPT, infatti, ci sentiremmo di aggiungere che in quasi 60 anni la situazione non parrebbe essersi particolarmente evoluta, ma rischieremmo di andare fuori tema e quindi preferiamo concentrarci sul film.
Giulietta Masina interpreta Lina, servetta veneta circuita e sfruttata per fare un colpo nella villa dei padroni. Innocente, pur di non denunciare il suo uomo (che scopriremo in seguito essere uno splendido cameo di Alberto Sordi, seduttore e ladruncolo abituale) si prende la colpa. Egle, cinica e a tratti meschina creatura di Anna Magnani, nel braccio la fa da padrona. Dorme di giorno, rumoreggia la notte, ruba sigarette e cibo alle altre detenute, intrattiene splendidi e duri scontri verbali in romanesco (“E stròzzate!”) con la grassa Moby Dick, risponde a muso duro, distrae le guardie e sa farsi sempre valere. Il suo pelo sullo stomaco avrà una fascinazione fatale sulla purezza di Lina, sua protetta, che una volta scagionata rientrerà ben presto in cella trasformata, da cameriera a prostituta, da timida signorina a sboccata donnaccia. Nelle celle piene fino a non potersi quasi muovere, nel fiele quotidiano che la convivenza forzata comporta, l’iniziale innocenza quasi farlocca di Lina, a contatto con la violenza e con il crimine, muta rapidamente, mentre Egle si rende drammaticamente conto di avere creato un mostro. In opposizione alla spirale distruttiva di Lina, infatti, si dipana il romanzo di formazione del personaggio interpretato dalla Magnani: una vita, la sua, dentro e fuori dalle Mantellate, con il cinismo sufficiente per considerare il carcere una vacanza e la prospettiva di non tornarci una mera utopia. Ma questa volta qualcosa cambia, c’è una progressiva umanizzazione che la pervade, fra l’innocenza di Lina e il sogno dell’amore (non così tanto) proibito della giovane Marietta nei confronti di un uomo guardato con uno specchietto dalla finestra. Lo strazio profondo della sequenza nella quale un panno affonda nel lavatoio, ricordando ad una detenuta -per l’omicidio di suo figlio- il tragico e non voluto errore nel quale ha perso la vita l’infante, è forse il momento più alto del film. La sua crisi isterica davanti ad un’attonita Magnani, trattenuta a forza attraverso le sbarre dalle altre carcerate mentre cerca di evitarle la violenza delle guardie e la camicia di forza, è per Egle il punto di non ritorno, nel quale viene fuori tutta la stanchezza per una vita che forse non le è mai realmente appartenuta. Le torna in mente la bellezza di Roma, il sole che bacia i monumenti, la vita normale. “Io qui dentro non ci torno più”, il suo drammatico grido, mentre le guardie la trascinano, nel finale, verso l’isolamento.
Nella città l’inferno è principalmente un barbarico grido di libertà, un film sul destino e sull’amarezza, nel quale Renato Castellani si conferma un gigante della macchina da presa riuscendo a mettere in scena un melodramma splendido per analisi psicologica e tenuta narrativa. Fotografato in un bianco e nero contrastato nel quale le figure, come i personaggi, emergono dal buio, o ci (ri)piombano, Nella città l’inferno è un film di dettagli, magmatico e corale, tutto al femminile, capace di vibrare di vitalità ad ogni sussulto di sceneggiatura. Ma è Anna Magnani la vera marcia in più: la sua prova brilla di luce propria, il suo sguardo riassume tutto l’impianto emozionale del lungometraggio, il suo volto contrito raggiunge espressività e sensibilità quasi spirituali. Il cuore del suo personaggio si fa strada in un mondo difficile, microcosmo fatto di criminalità, dolore, ingiustizie e rimpianti, con una potenza attoriale cristallina e abbacinante. Non rimane che lanciarle il sale, quando andrà via, come augurio per non tornare mai più. Lei lo sa perfettamente, come funziona, e non si volterà.
Marco Romagna