Il primo e decisivo passo cinematografico è stato, per Danilo Monte, il 2014 delle folgoranti Memorie – In viaggio verso Auschwitz insieme a un fratello “pecora nera” con il quale tentare di ricucire, rigorosamente in soggettiva, un rapporto ormai logorato. Poi, nello scorrere delle stagioni della sua vita di uomo, occhio e regista, è venuto il 2016 della ricerca matta e disperatissima di una Vita Nova insieme alla moglie Laura D’Amore, passando attraverso le difficoltà della fecondazione assistita ed entrando, seppure in maniera sporadica, per le primissime volte nel quadro, non più mero occhio ma (s)oggetto della propria stessa vita. Ora, dal 25 maggio 2017, quell’idea di “vita nova” si è fatta carne, corpo, sorriso, bavetta e manina, ed è definitivamente giunta Nel mondo con il nome di Alessandro, bellissimo bambino biondo. Dal momento del parto ai primi passetti, in un primo anno di vita scandito da quattro (inesorabili) stagioni in cui rendersi progressivamente conto di cosa voglia davvero dire diventare genitori, l’occhio meccanico di una reflex rimpallata fra Danilo e Laura oppure fissa a osservare (sempre da vicino) l’intera famiglia rimane costantemente puntato verso il piccolo Alessandro e verso quella coppia ormai diventata trio. Un occhio ossessivo, (auto)persecutorio, necessariamente perenne per riuscire a cogliere ogni momento significativo di un anno di rivoluzione – il fiocco azzurro, la prima volta che Alessandro riesce a girarsi da solo sul letto, oppure quel suo gattonare e appoggiarsi alla sedia riuscendo a issarsi per la prima volta in piedi mentre altrettanto faticosamente un uomo e filmmaker diventa padre. Come se l’obiettivo nient’altro fosse che uno specchio, o meglio la vera e propria estensione di un uomo, di un papà, di un marito, di un attimo. Dell’occhio di Danilo Monte, che annulla definitivamente ogni tipo di distanza cinematografica e filma la propria vita alla ricerca di un senso (im)possibile in cui tentare, guardando e riguardando, di trovare se stesso. Fissando senza alcun tipo di censura né di mielosità retorica edulcorante ogni momento, ogni emozione, ogni gioia, ogni sorriso, ogni istante di tenerezza, ogni amorevole massaggino alla pancia, ma anche ogni difficoltà, il dolore del parto, la placenta, le coliche, gli scoramenti, i momenti di nostalgia nei confronti della vita «di sei mesi fa». Ogni pianto notturno senza alcuna pietà per la stanchezza dei genitori, ogni disgustosa «fontana di merda» improvvisata dal poppante sull’asciugamano, ogni suo grido perentorio per farsi prendere in braccio o per avere qualcuno vicino con cui giocare, e ogni inevitabile litigio fra i coniugi “schiavi” della loro stessa creatura ai quali è definitivamente, o per lo meno per un bel po’, cambiata la vita. È semplicemente la realtà così com’è quella che Danilo Monte filma e mostra, perché un figlio neonato vuole dire anche non dormire, se necessario non mangiare, vedere l’ufficio come una via di fuga in cui soffrire ugualmente ma per lo meno in silenzio, esistere – anche quando si conservano lavori e progetti – solo per lui. E nell’osservare il tempo prima bloccato da un pianto e poi ri-accelerato dal corpicino che cresce, quasi (mai) necessario contraltare della vita improvvisa e inaspettata si intrufola pure la morte. Di un fratello di Danilo – non il Roberto di Memorie, ma Tullio al quale il regista era da sempre maggiormente legato – da ritrovare disperatamente nelle vecchie fotografie, altre immagini che sono altri sguardi su altri istanti, altri ricordi, altri brandelli di vita. Mentre Alessandro si allunga, fa le braccia cicciottelle, inizia a diventare intellegibile nei suoi versetti, ogni giorno si sviluppa, acquisisce capacità e indipendenza, articola parole, si fa grande. Perché dopo l’autunno e l’inverno tornerà sempre la primavera, tornerà il sole verso cui camminare. Magari incerti su gambette non ancora del tutto pronte a sostenere il peso, ma sempre protesi in avanti.
Il cinema videodiaristico di Danilo Monte, tanto più in questo Nel mondo presentato in concorso al Filmmaker Festival 2019 di Milano che appare linguisticamente ancor più a fuoco e bilanciato del solito (anche grazie all’ausilio di Alessandro Aniballi, già penna critica fra i fondatori di Quinlan.it, alla sceneggiatura) nell’osservare il passaggio del tempo e nell’accostare le stagioni del primo anno del piccolo Alessandro Monte alle stagioni della vita, è un continuo guardare e filmare per vivere, e al contempo un continuo vivere e quindi potere/dovere guardare e filmare. Quasi come se lo sguardo e la registrazione arricchissero di un ulteriore strato di profondità il singolo momento della vita catturato e consegnato all’eterno, o ancor più drasticamente come se lo sguardo e la riproducibilità fossero le uniche possibili prove empiriche dell’esistenza. Non è più “l’uomo con la macchina da presa”, ma è l’uomo che diventa macchina da presa, entra nell’intimità e registra tutto ciò che accade, anche il silenzio, anche il tempo morto, anche la situazione imbarazzante, anche la noia, il fastidio, la responsabilità apparentemente insostenibile, l’altra faccia della gioia. Nel filmare ossessivo di Danilo Monte c’è la consapevolezza che solo ciò che si vede (e che di conseguenza si può filmare) sicuramente c’è, esiste, è tangibile, si può toccare e ricordare, è realmente vivo. Cinema, sguardo e vita si trovano così in una costante sovrapposizione che li porta a coesistere, a coincidere, a essere parti perfettamente complementari della stessa persona, della stessa famiglia, dello stesso nucleo, della stessa vita, della stessa ricerca di risposte. Ponendosi, di fatto, come perfetta antitesi rispetto alle tesi – si può guardare o vivere, un atto necessariamente esclude l’altro – portate avanti con sorprendente forza dai Mektoub my love di Abdellatif Kechiche. Certo, si tratta di due tipologie di cinema completamente differente, da una parte l’home-movie documentario familiare, casereccio e indipendentissimo di Danilo Monte, dall’altra la pura finzione “professionale” che scava nel desiderio dell’autore franco-tunisino, e per molti versi accostarle potrebbe apparire una magari suggestiva, ma in definitiva folle, sovrainterpretazione critica. Ma è onestamente difficile, di fronte al lavoro di Monte, non leggere un vero e proprio dialogo teorico a distanza fra due film (o forse sarebbe meglio dire fra due trilogie, una completa e una attualmente ancora in attesa del terzo e ultimo capitolo) altrettanto radicali nella centralità dello sguardo rapportato alla vita. A differenza dell’Amin di Kechiche, impossibilitato a ballare perché troppo impegnato a guardare (e fotografare, e registrare), Danilo Monte guarda (e registra) proprio perché vivo e messo di fronte a una vita che scorre troppo rapidamente per non tentare di coglierla, un frammento dopo l’altro, nel suo divenire. Tutto è potenziale narrazione perché tutto, nel momento stesso in cui lo si filma, è prova dell’esistenza e balzo verso il futuro, l’eternità, la memoria, e quindi l’umano con tutte le sue fragilità. In chissà quante altre estati, quanti altri autunni, quanti altri inverni e quante altre nuove primavere, sempre Nel mondo. Quel mondo di cui siamo tutti spettatori e al contempo attori ma non sempre registi, oggetti animati e poi ricordi. Come il Caronte che chiudeva Il pianeta azzurro piavoliano, forse, oppure come l’urna cineraria di Tullio. O ancora come le immagini, destinate a diventare storia intrappolata nei pixel nel momento stesso in cui vengono registrate. Nelle immagini non esiste (più) un presente, non può esistere. Ci può essere solo il passato, lo scorrere del tempo, il rivedersi tanto o poco più giovani, il “come eravamo”. Ma nel presente, all’opposto, possono esistere infinite immagini, quelle da continuare a guardare e quelle ancora da filmare, le situazioni da vivere e da cristallizzare in nuove immagini che non possono realmente fermare ma possono richiamare il tempo, ingannarlo, rimontarlo. Passando all’improvviso dal passeggino al monopattino, dai pianti ai «Papà», dai baci ricevuti a quelli dati. È passato un altro anno, quasi senza accorgersene. Forse un minuto, forse un secolo. L’ennesimo brandello di una vita, fra campo e fuori campo. L’unica cosa davvero importante è non spegnere mai la videocamera. Bisogna continuare a osservare, a filmare, a crescere, a (ri)scoprirsi. A vivere.
Marco Romagna