Il cinema non è solo immagini e suoni, non è solo linguaggio, non è solo montaggio, non è solo tematica, e non è nemmeno solo sguardo. Il cinema, per un cinefilo vero, puro, d’assalto, può essere molto di più. Il cinema è semiotica e ragionamento, è sensibilità e sentimenti, è sogno e messaggio. Il cinema è amore e dolore, è la grande passione, è il grande sfogo voyeuristico, è la lacrima che scende quando meno te lo aspetti. Ma soprattutto il cinema è ossessione, è un qualcosa che può chiudere nell’isolamento e nella mancanza di stimoli personali ma può anche letteralmente salvare la vita, ponendosi come immaginifica ancora di salvezza, come grande fuga, come unico modo per sublimare le emozioni attraverso uno schermo e per tenere in qualche modo a bada la sofferenza, la depressione, la disperazione, il senso di impotenza, gli istinti più oscuri. Era l’aprile di ormai tre anni fa quando Frank Beauvais, noto nel mondo del cinema non solo per i suoi (pochi) lavori da regista ma anche e soprattutto per la sua lunga carriera da musicista da film e per i suoi lavori come programmatore, nel giro di poche settimane venne lasciato dal compagno per il quale si era trasferito nel remoto villaggio dell’Alsazia teatro della sua solitudine e riuscì a ricucire un rapporto con quel padre che non aveva mai accettato fino in fondo la sua omosessualità solo per il tempo di assistere alla sua morte su un letto d’ospedale. Quel doppio e così ravvicinato dolore lo aveva trascinato nella più nera spirale depressiva della sua vita, in oltre sei mesi fra pensieri suicidi e apatia, pianti isterici e solitudine, attacchi di panico e sudori freddi. Sei mesi, quelli fra aprile e ottobre 2016, vissuti isolato, senza lavoro e senza patente, sperduto e senza prospettive nelle campagne di una Francia in stato d’emergenza. Solo i suoi DVD e Bluray lo potevano salvare, solo i mondi creati dagli altri potevano riempire il vuoto nel suo, con la visione compulsiva di oltre 400 film di ogni annata, regista, genere e provenienza geografica, quasi a ripercorrere la storia del cinema da Lubitsch a Leni Riefenstahl, da Rossellini a Jean Renoir, da Pudovkin a Bergman, da Ruy Guerra a Kiyoshi Kurosawa, passando per Sergio Martino, Lucio Fulci, Romano Scavolini e Damiano Damiani fino a Refn, Carpenter e Imamura. Trovandosi in un certo senso intrappolato in quelle storie, in quei volti, in quegli immaginari e in quegli sguardi, ma al contempo riuscendo ad aggrapparvisi come fossero una mano tesa per uscire dal proprio pozzo senza fondo. Fino magari a trasformare la loro fruizione passiva, unita alla rilettura delle pagine scritte in quei giorni come una sorta di continuo e inarrestabile flusso di coscienza, in un nuovo atto creativo e di liberazione: la guarigione, forse, o per lo meno un miglioramento. E di certo un segno.
Nasce così Ne croyez surtout pas que je hurle, letteralmente “Non pensare che io stia urlando”, presentato al Forum della Berlinale 2019 (e poi al DocLisboa) nella sua fiumana di immagini e pensieri. Settantacinque minuti di monologo e di stasi, in cui sono proprio quei quattrocento compagni di viaggio in celluloide che, sapientemente ri-montati secondo attrazioni e allusioni, accompagnano con i loro frammenti, pochi fotogrammi a testa, l’autoanalisi del cinefilo, del figlio, del compagno, dell’uomo che soffre, messo a nudo all’apice della propria fragilità. È un diario di quei mesi di dolore, cinema e riflessioni, quello portato sullo schermo da Frank Beauvais, innestato sulle immagini di Kobayashi e Guiraudie, di Martin Scorsese e René Clément, frenetiche come una nevrosi o come un pianto isterico nel loro alternarsi puntellando, a volte rafforzando e a volte smentendo, il monologo nei suoi sensi e nelle sue tracce. Un lavoro di found footage e di montaggio assolutamente sorprendente, in cui è straordinaria la conoscenza del materiale da parte di Beauvais, e in cui è prodigiosa la sua capacità di far dialogare le immagini fra di loro e con le parole, fra analogie e contrasti, fra richiami ed evoluzioni, fra la cupa depressione e l’inerzia del regista e quelle della Francia blindata dopo gli attentati, fra la fragilità personale e quella di un mondo altrettanto instabile, claudicante, ferito, impaurito, indifeso. A partire dalla – magnifica – locandina che guarda direttamente ai titoli di Saul Bass, Ne croyez surtout pas que je hurle lavora sull’inquadratura, sul dettaglio, sull’eterogeneità. Lavora sui formati, lasciati rigorosamente nell’aspect ratio originale, lavora sul colore che quasi emerge dal bianco e nero, lavora sui paesaggi e sui volti, sugli oggetti e sui simboli. Lavora sulle finestre e sulle chiavi, sugli occhi e sugli orologi, in un costante avvicinarsi e allontanarsi fra ciò che si vede e ciò che si sente mentre il tempo moltiplica i suoi piani e quasi sfugge di mano, con il passato frammentato che vede annullarsi le distanze fra film realizzati magari a un secolo l’uno dall’altro così apertamente contrapposto al racconto preciso e quasi quotidiano del presente, di quei mesi di sofferenza e di oscurità, di sospensione e di solitudine interrotte quasi solo da quei quattro-cinque film al giorno che puntualmente entravano e uscivano dal lettore. La vita del regista, pur dal chiuso del suo rifugio, si intreccia inevitabilmente con gli eventi del mondo, citati nelle riflessioni, richiamati dalle immagini, commentati nello sconforto. Ci sono gli attacchi terroristici all’aeroporto di Istanbul e a Nizza, c’è il (tentativo di) colpo di Stato in Turchia, ci sono i viaggi della speranza e gli sbarchi dei più disperati, c’è la morte di Prince, c’è la canonizzazione di Madre Teresa, ci sono i terremoti in Centro Italia, e nel frattempo ci sono i film, ci sono le crisi di panico, ci sono i pianti, ci sono le depressioni, ci sono le riflessioni sul senso o meno degli attivismi e sul cinema in terza e in prima persona, perché guardarlo e perché farlo, perché cercare nuove forme e perché dedicargli questa inquieta lettera d’amore e di ossessione. Ci sono gli amici che vengono a fare visita, che dalle definizioni «coppia di registi portoghesi» e «i due João» si intuiscono al volo essere Rodrigues e Guerra da Mata, ci sono le crisi personali e quelle (inter)nazionali, c’è la paura della violenza, del sociale, della polizia, dell’economia di questo mondo sempre più spietato, e soprattutto c’è una cinefilia matta e disperatissima, c’è un infinito amore nei confronti delle singole inquadrature, del mezzo e della ricerca linguistica, c’è la necessità intima di ringraziarlo pur consci che, come tutte le più totalizzanti dipendenze, fa male, come una croce e delizia di ogni giorno e specialmente dei più difficili. Fino al trasferimento a Parigi che sarà la definitiva uscita dal tunnel, il riprendere possesso della propria vita. Con il cinema, ovviamente. Quella fabbrica di sogni che – davvero – tutto può. Basta saperla abbracciare fino in fondo. E nel frattempo godersi quella che, al di là del confermarsi delle (poche) certezze, è forse la migliore sorpresa di questa Berlinale.
Marco Romagna