Il simulacro non è ciò che occulta la verità. E’ la verità ciò che occulta che non esiste una verità”
Jean Baudrillard
Le storie e la Storia. Claude Lanzmann ormai da una quarantina d’anni ricerca incessantemente, attraverso le proprie tracce personali, lo spazio di un percorso più ampio di studio di un reale possibile attraverso il senso espanso e il rigore del documento. Molto tempo è passato da Shoah (era l’ottantacinque del secolo scorso) e allo stesso tempo l’occhio e la volontà di raccontare dell’autore paiono prendere nuove traiettorie, anche verso un inasprimento della propria esposizione al limite dell’autoreferenzialità. In questo ultimo Napalm (poi verremo anche al titolo), presentato fuori concorso a Cannes, descrive minuziosamente un breve e fugace incontro sentimentale avuto in Corea del Nord nel 1958, durante un viaggio come rappresentate francese della delegazione dell’Europa Occidentale, il primo a seguito della drammatica guerra coreana. Nato quasi da una necessità causale (e forse anche casuale, proprio come quell’incontro) il film non fa altro che interrogare il tempo in maniera concettuale e soggettiva, lavorando sull’impressione e sulla sedimentazione del ricordo e di come esso possa essere una potentissima arma politica di difficile codifica ma di enorme pericolosità propagandistica.
Il film si apre nella possibilità di un’espressione temporale. Dopo esserci tornato nel 2003, Lanzmann due anni fa compie l’ultimo suo viaggio in Nord Corea e, nell’ovvia difficoltà di poter girare liberamente con la macchina da presa (la stessa reflex Sony Alfa7 dell’ultimo cinema di Lav Diaz), inizia il suo detour nel luogo simbolo di Pyongyang, il gigantesco mausoleo dedicato alla famiglia/dinastia Kim. Uno spazio “vuoto e monumentale” commentato in diretta dalla sua voce mentre in campo entrano promessi sposi pronti a fare voto davanti alle divinità atee della Repubblica Popolare quando il sole volge al tramonto e bacia il bronzo lucente delle due enormi statue sorridenti. Sorridono, si, della propria programmatica (e in un certo senso fotografica) immortalità. Dovrebbe essere proprio il concetto stesso di progresso dialettico in eternità, la struttura alla base del sistema identitario e programmatico di una dittatura, o meglio l’idea che questa immagine (simulacro) possa definire un’apparenza di verità legata a un destino incontrovertibile di società (nemmeno così avanzata). Da questo semplice principio di alienazione soggettivo (e oggettivo), Lanzmann sposta l’attenzione su quello che è stato, riavvolge il nastro della propria esperienza personale, come se direttamente fosse lui questa volta al centro della storia, senza apparente testimonianza di verità. Ma dunque è il tempo ad essersi fermato, chi lo racconta, o entrambi?
L’autore ora è anche attore, riempe completamente l’inquadratura in un primissimo piano ed inizia a parlare dei fatti che lo coinvolsero quasi sessanta anni fa. L’incontro con l’infermiera Kim, la narrazione esplicita e particolareggiata di un’intera giornata di frequentazione, l’epicità che trasla dal noir spionistico all’istinto d’amore, il finale che ha il sapore dell’abbandono. Ritornare in quei luoghi, ricreare una mappatura sentimentale di quei giorni, è per Lanzmann come camminare in bilico su un doppio filo, che lo porta da una parte al desiderio continuo di documentazione, e dall’altra a un inaspettato quanto ingenuo slancio affettivo e fisico. Ma sarà sempre il tempo a prendersi la scena, quello perso, quello che manca, quello che nell’attimo di un pomeriggio se n’è andato per sempre, lasciando solo una lettera. Un aneddoto raccontato già (in maniera diversa) nel testo Le lièvre de Patagonie, e ora esplicitato in immagine quasi provvisoria e immediata, sdoppiando lo stesso simulacro, replicando l’eternità del contesto e dell’estetica propagandistica nella personalissima etica del frammento e della narrazione privata individuale. Come se davvero ci fosse un sentiero da attraversare tra tutte queste storie, e come se ogni testimone rappresentasse il proprio tempo davanti al luogo che ne fu l’oggettivazione (come Auschwitz per la Shoah, ora Pyongyang per la Guerra Fredda, indivisibili, dialettiche e collegate). Così ora è lo stesso Lanzmann a essere in campo, a delineare il proprio narcisimo estetico con la necessità della documentazione, come se fosse la cavia del suo stesso cinema (a volte quasi infastidita e fastidiosa). Perché in fondo Napalm, per i due amanti del pomeriggio, non era un gas ma una parola, l’unica che conoscevano entrambi (come le – parole – Nevers/Hiroshima, che per gli amanti di Resnais avevano perso qualsiasi funzione toponomastica). Storia e storie, simulacri e verità.
Erik Negro