Un altro luogo e un’altra storia. Oltre alla realtà siriana, alla deriva turca e alle complessità irachene, un’altra voce cinematografica che emerge dall’urgente Focus del DocLisboa sul corso dell’Eufrate e dei suoi popoli è quella dell’Armenia. Con il programma dedicato a Jacques Kébadian, con il capolavoro Nahapet di Henrik Malyan, e con questo seminale Namus del pioniere Hamo Beknazaryan, universalmente riconosciuto, nel mondo ancora sommerso e sorprendente del cinema muto, come primissimo film di un Paese che necessitava in qualche modo di costruirsi un’identità dopo il trauma. Siamo fra il 1925 e il ’26, tra i dieci e gli undici anni dal genocidio che in pochi mesi si portò via un milione e mezzo di anime. Un dramma forse impossibile da rappresentare, e molto spesso dimenticato (forse per rispetto, forse per rimozione, forse solo per mancato interesse) anche dal cinema. Bisognerà aspettare Malyan e il ’77, appunto, per avere la prima opera in cui il massacro causato dagli ottomani diventerà l’evento cardine di un film (anche se già negli anni precedenti molti autori quali Balasanyan, Isahakyan, Zargaryan – con i vari Fatherland, 1945, Melik-Avagyan – What’s All the Noise of the River About?, 1958, e Dovlatyan – It’s Me, 1965 – facevano percepire l’entità del dramma), anche perché tutta la filmografia armena era necessariamente da considerarsi sovietica. Così come è tecnicamente sovietico Namus, oggetto misterioso e straordinariamente affascinante nei linguaggi e nell’intensità di Beknazaryan, primo seme della cinematografia di un Popolo co-prodotto a metà degli anni Venti dalla Gosfotokino armena e dalla Goskinoprom georgiana riprendendo un romanzo fondativo di Alexander Shirvanzade del 1885 ambientato nella quotidianità della provincia prima della rivoluzione, in quella seconda metà di un Ottocento costruito tra pregiudizi di forma e ottusità della tradizione.
Due giovani, due ragazzi sopravvissuti al terremoto che vivono intensamente il loro amore non conforme alla ritualità dell’Adat, si trovano a vivere in clandestinità la loro storia. Siamo nel Caucaso di Shamak, e un figlio di un vasaio mai si sarebbe potuto sposare con una ragazza di buona famiglia. Sarà un vicino di casa a scoprirli in uno dei loro incontri segreti, denunciandoli affinché la giovane sia data in sposa a un ricco mercante per mantenere l’onore familiare. Il finale è una pagina di dramma, con il marito che uccide il ragazzo dopo le diffamazioni di lei e con lei che si toglie la vita una volta venuta a conoscenza del destino dell’amato. Un dramma classico, per molti versi shakespeariano, reso assai potente dalla recitazione quasi espressionista (tutti gli attori erano protagonisti del teatro armeno e lo stesso autore fu un attore sovietico) in cui la forma del muto assume il linguaggio della sua lirica più tarda (montaggio strutturato e complesso, uso del fuori campo e della dissolvenza, innovativi piani di ripresa, fusione di lirismo realista e tensione romantica vicina a tratti a vario cinema sovietico del periodo). Si era nel pieno periodo del realismo sovietico e questo film è entrato di diritto nella sua storia per aver rappresentato – con gli stilemi del dramma classico – uno spaccato di vita quotidiana in un periodo oscuro delle minoranze interne all’Unione. Mantiene un rigore nella narrazione come nella rappresentazione comportamentista dei soggetti, elude le più comuni e banali semplificazioni (allora in voga) su popoli e luoghi poco conosciuti, e riscrive (anche con una certa complessità) l’esperienza di relazioni umane e sociali di un periodo simbolo nella storia armena, a cavallo di quella crisi che portò pian piano verso uno delle pagine più buie di tutti il Novecento.
Anche Namus (traducibile con Honor, “onore”) in un certo senso assume il carattere di documento, di tramite per oltrepassare una pagina di Storia inconcepibile e tornare a guardare uno dei popoli dalla Storia più complessa e affascinante di tutta l’area caucasica. Il film di Beknazaryan (che realizzerà nove anni dopo anche Pepo, il primo film sonoro armeno), seppure inizialmente distribuito solo in Unione Sovietica, divenne un cult, tanto da diventare un classico del muto sia nel mondo Occidentale sia in quello Orientale. A questo successo però si alternerà un periodo di ben altre sorti. Namus verrà presto dimenticato (nonostante la post-sincronizzazione del decennio successivo), fino a scomparire per lungo tempo. La riscoperta – anche della versione sonora – è di anni recenti, come il passaggio in un programma dedicato all’Armenia nel Cinema Ritrovato bolognese. Questa collocazione a Lisbona però gli dona probabilmente una nuova luce, proprio nel ridefinire l’essenza dei Popoli attraversati (in maniera più o meno organica) dall’Eufrate, in quell’apparente vicinanza che unisce storie dalla prospettive culturali assai diverse, ma che nell’ideale corso del fiume trovano più che mai similarità. Nella storia di questi Romeo e Giulietta d’Armenia, nei fotogrammi sopravvissuti come in quelli mancanti, nella dialettica continua (e impossibile) tra amore ed onore, c’è un spirito di libertà e di resistenza che non può ancora conoscere quale sarà la Storia, ma che pare quasi anticiparla. Nell’estetica del dramma vive ancora oggi la sofferenza di un Popolo che da sempre ha lottato per l’esistenza della propria identità ma che ha, allo stesso tempo, fornito all’arte (e in special modo al cinema) visioni originali e straordinarie. Namus è un altro film che definisce il tempo del mondo, lo riavvolge e lo espande come se fosse la chiave d’accesso ad un altra dimensione, quella sopravvissuta alla realtà.
Erik Negro