NAILS IN MY BRAIN (2020), di Hilal Baydarov
Ancora una volta Hilal Baydarov si presenta al Trieste Film Festival con una pellicola tirata fuori da un cassetto, ancora una volta nel concorso documentari, ancora una volta diversi anni dopo averla girata. Era successo l’anno scorso con Mother and Son, giunto nella Venezia Giulia dopo l’anteprima mondiale all’IDFA di Amsterdam, è accaduto nuovamente quest’anno con Nails in my Brain, in questo caso dopo l’anteprima al Cinéma du Réel. E nel frattempo, tra Parigi e Trieste, è arrivata la consacrazione internazionale di un autore che fino a qualche anno fa vedeva le sue opere sistematicamente rifiutate dai Festival a cui provava a sottoporle, con il suo In Between Dying selezionato nel concorso principale della 77esima Mostra del cinema di Venezia. Una consacrazione arrivata, peraltro, con la sua opera probabilmente meno convincente, almeno tra quelle recentemente giunte in Italia, visto che In Between Dying ha lasciato più di qualche dubbio tra i commentatori (ma ha anche raccolto – va detto – molte recensioni positive). Una sensazione che si acuisce dopo la visione di questo invece ammirevole Nails in my Brain, capitolo conclusivo della trilogia dedicata al villaggio dove Baydarov trascorse l’infanzia, il paesino di Katex, ai piedi del Caucaso maggiore, a pochi chilometri dal confine con la Georgia.
Siamo nuovamente in un contesto domestico, in una casa in rovina, probabilmente la casa d’infanzia del regista, anche se nel film non viene mai esplicitato. Una serie di quadri fissi permette di esplorare quell’abitazione nei suoi scorci più suggestivi, nei suoi angoli più fatiscenti, tra muri scalcinati, serramenti malfermi e chiodi piantati nelle travi portanti. E polvere, interi fantasmi di polvere che si illuminano di ogni fascio di luce, sempre uguali nello scorrere delle stagioni. In sottofondo giunge la voce pacata ma sicura del regista, con la macchina da presa che lo inquadra, silente e pensieroso, mentre si aggira tra quelle mura. Una voce narrante che dà concretezza ad alcune meditazioni, che rappresentano i “chiodi nel cervello” del titolo. Chiodi che sono tarli nella mente – per ricorrere a una locuzione più propria della nostra lingua –, ma anche chiodi veri e propri, che il regista pianta nelle mura, diventando essi metaforicamente, ma anche fisicamente, un sostegno dei propri pensieri, rappresentati da pagine di libro appese proprio a quei chiodi. Il libro – non a caso ovviamente – è La morte di Virgilio di Hermann Broch, romanzo in cui lo scrittore austriaco racconta l’ultimo giorno di vita del poeta latino Publio Virgilio Marone, tormentato da un malessere che ne causerà la morte poco dopo lo sbarco nel porto di Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia. Il libro di Broch prova a ricostruire, con un flusso di coscienza che ricorda quello del film, i pensieri di Virgilio prima della morte, e in particolare il suo desiderio di distruggere, gettandoli nel fuoco, i manoscritti dell’Eneide, quell’opera incompiuta che Virgilio non fece mai in tempo a rivedere ma che, nonostante questo, sarebbe diventata il poema nazionale di Roma, su impulso proprio di quello stesso Ottaviano Augusto che aveva convinto Virgilio a non liberarsi dei manoscritti. A quel libro Baydarov ritaglia i numeri delle pagine, in quello che sembra un tentativo di rimestare il già aggrovigliato flusso di coscienza, rendendo i pensieri ancor più indistinguibili una volta staccate le pagine dal dorso del libro e appesele ai chiodi sulla parete. A quelle pagine verrà poi dato fuoco, portando a compimento ciò che Virgilio non riuscì a fare con i manoscritti dell’Eneide. E sono pensieri che bruciano, letteralmente, esattamente come bruciano nella mente di chi si trova ad arrovellarsi tra mille chimere. Quello che potrebbe sembrare una trovata da installazione d’arte contemporanea è in realtà una potente rappresentazione di ciò che continua a manifestarsi sulla traccia audio della pellicola, con le parole scandite quasi come in una predica, quasi come nella recita di una sūra del Corano, quasi come in un’orazione diffusa da un minareto. E non a caso alcune frasi vengono ripetute due, tre volte, come in una litania, scandite da rintocchi di campane.
Ma c’è ben poco (in certi casi nulla) di religioso nei contenuti di quelle dissertazioni, racchiuse in discorsi dai confini ben determinati, raggruppati in sette capitoli (più un epilogo) che compongono la struttura vagamente episodica del film. E quelle parole finiscono per scandire le tappe di una vita, quella dell’autore, che si racconta in un’autobiografia lirica e talvolta surreale, toccando vari momenti del suo cammino di formazione. In quelle tappe il cinema sembra essere mero strumento incidentale, medium fraterno e comprensivo giunto in soccorso del regista per aiutarlo a scolpire attimi. In questo senso Nails in my Brain è (anche) il diario filmato di un giovane autore, poco più che venticinquenne all’epoca delle riprese, che si trova a fare un bilancio delle proprie emozioni e ossessioni più profonde, dei propri sentimenti, delle proprie angosce, dei propri momenti di svolta, delle proprie crisi mistiche ed emotive.
Le rovine della casa sono chiaramente un’allegoria delle rovine della mente, in un’opera che è anche un film sulla memoria, sull’infanzia e sulla famiglia, ma anche sugli «strani pensieri» – per usare le parole del regista – che affollano la mente di un giovane dotato di una sensibilità fuori dal comune. E infatti il «primo chiodo», la prima domanda che rappresenta anche il primo «episodio» del film, sorge già in età precoce, durante l’infanzia e durante il primo incontro con la morte, rappresentato da una fuga di gas che solo per un caso fortuito non si è trasformata in tragedia, in una delle deflagrazioni di cui i telegiornali davano notizia periodicamente. E la domanda che sorge è proprio quella: dio, perché non mi hai lasciato morire? È la prima domanda del primo capitolo di un’opera strutturata come un lunghissimo stream of consciousness, un flusso di coscienza che può sembrare quello di un diario personale, ma è anche una raccolta disordinata (o forse no) di pensieri sgorgati in estrema libertà. Pensieri che tentano di accomunare bellezza e sofferenza, cercando un legame tra elementi apparentemente sconnessi, mentre in uno slide show neuronale scorrono immagini che sembrano non avere altro significato che quello di trasmettere l’inquietudine fisica e corporea di ciò che la voce sta esprimendo vomitando pensieri: il movimento irrequieto del protagonista tra le stanze, i momenti di raccoglimento in preghiera, la ripetizione di quella posizione di tormento fisico (in piedi con una gamba sollevata) che ricorda la punizione inflittagli dalla professoressa di matematica e che – confessa Baydarov – gli dava in realtà un intimo piacere, il piacere di essere punito e deriso dai suoi compagni.
Il secondo chiodo nel cervello è invece rappresentato da «quella ragazza di Sarajevo» che per il regista rappresenta il ricordo personale della bellezza e dell’amore platonico. Un incontro fittizio che viene raccontato con la stessa leggerezza con cui De André – rifacendo Brassens – cantava Le passanti. C’è quella stessa poesia nelle parole che Baydarov usa per descrivere quella che è stata probabilmente una fugace infatuazione vissuta durante il suo periodo trascorso in Bosnia, quando frequentava la Film Factory di Béla Tarr, autore che non si fatica a inquadrare tra le possibili fonti di ispirazione del regista azero. Eppure, in un passaggio fondamentale di Nails in my Brain, questi esplicita la sua concezione dell’ispirazione come derivante soprattutto dalla vita vera e da ciò che ci circonda, piuttosto che dall’arte che si può aver divorato anche famelicamente. Puoi aver visto migliaia di film e letto centinaia di libri – afferma Baydarov – ma nulla potrà ispirarti più di un bambino che gioca per strada. La realtà supera la potenza di mille film. Qualunque cosa metta un velo tra noi e la realtà è un imbroglio – ci dice il regista, senza mezzi termini.
L’esperienza a Sarajevo non durò a lungo, visto che Baydarov abbandonò la Film Factory per tornare da sua madre, che gli mancava terribilmente. Quella madre a cui ha dedicato alcune sue opere precedenti (da Birthday, il film che di fatto ha consentito al mondo occidentale di conoscerlo; al già citato Mother and Son, primo capitolo della trilogia di Katex). E la madre ritorna anche in Nails in my Brain, ancorché soltanto inquadrata per qualche istante mentre suo figlio continua a recitare i propri pensieri. Una madre a cui si deve anche la scelta dell’accompagnamento musicale, la splendida Gnossienne No. 1 di Erik Satie, leggermente andante, che si ripete in loop per tutta la durata dell’opera, perfetto sottofondo scrosciante e straniante di una condizione catatonica, intervallato solo in alcuni momenti da altri suoni, naturali o meno: lo stillicidio o i rintocchi delle lancette di un orologio, l’eco delle campane. Eppure, stavolta la madre è nulla più di una comparsa, in un’opera che resta strettamente personale e fortemente intima, un’opera in cui Baydarov esprime il SUO amore per la vita, i SUOI pensieri sul suicidio (che fanno pensare alla vita e alla volontà di vivere, nonostante tutto), i SUOI dubbi sulla fede, la SUA concezione dell’arte, la SUA ossessione per il pensiero, i SUOI stimoli intellettuali continui, da raccogliere prima che si dissolvano, la SUA follia e la SUA solitudine.
La formazione matematica di Baydarov emerge nel quinto capitolo del film, emblematicamente intitolato “5=5?”. Dietro questo interrogativo in forma di equazione si cela una personalità che è per sua natura portata a nutrire il dubbio, che ha nella sua indole la voglia e la necessità di dimostrare ciò che per gli altri è scontato. La dimostrazione matematica dell’equazione 5=5 diventa metafora delle diverse sensibilità che le persone hanno nella percezione del mondo. È una metafora della stessa distanza incolmabile che c’è tra le persone, tra chi ha bisogno di dimostrare come 5 sia effettivamente uguale a 5, e chi invece si accontenta di recepirlo come un dato di fatto. È un momento fondamentale per Nails in my Brain, il momento in cui inizia a insinuarsi una certa violenza nelle immagini, con il regista-interprete che comincia a prendere a martellate i muri di quella casa fatiscente, paradossalmente, proprio nel momento in cui cita la delicatezza di Bresson, la sua inarrivabile capacità di restituire i momenti e la staticità del reale.
In una struttura necessariamente frammentata, già solo per il fatto di essere episodica eppure così omogenea e fluida, monotòna come l’inflessibile voce narrante, Baydarov ci parla ancora della sua ricerca di una guida, di un maestro, e insieme ci parla del suo rifiuto della condizione di profeta. Ci parla della sua volontà di «stare nel mezzo», senza voler diventare qualcuno a tutti i costi. Ci parla della dicotomia tra successo e fallimento, ma ci parla anche e soprattutto della sua idea di cinema, che non è scrittura, non è regia e non è fotografia, ma è «il linguaggio di una condizione esistenziale». È strumento salvifico e insieme mezzo espressivo, generatosi nella sua condizione di perfetto autodidatta. E nulla più dei suoi film, nulla più di Nails in my Brain, dà compimento e voce a questa sua personale concezione, fornendoci un’esperienza intellettuale totalmente sui generis che ci consente di condividere, di fare nostra la sofferenza esistenziale del regista. Raggiunto questo obiettivo, quei chiodi possono finalmente cadere dal muro.
Vincenzo Chieppa