NAFI’S FATHER (2019), di Mamadou Dia
Ci sono gli usi e i costumi più ancestrali di uno sperduto villaggio del Senegal, c’è l’amore di un padre, c’è una figlia da proteggere, e soprattutto c’è un’intera città da salvare dalla radicalizzazione, dalla corruzione, dalle fustigazioni pubbliche, dai burqa, dall’oscurantismo, dalle violenze, dai terrorismi. Nafi’s Father, esordio alla regia di Mamadou Dia e vincitore sia dei premi come miglior film e miglior attore protagonista (Alassane Sy) nella sezione Cineasti del Presente, sia del First Feature Awards del Locarno Film Festival 2019, lavora sul concetto di rappresentazione sociale in modo efficace e personalissima, per quanto in un certo senso opposto all’operazione concettuale del The Giverny Document vincitore dell’altra sezione “collaterale” davvero importante di Locarno, quella che si chiamava Signs of Life come tributo a Herzog e ora si chiama Moving Ahead per Mekas. Dove il mediometraggio di Ja’Tovia Gary giocava sul far convivere diversi stadi dell’auto-rappresentazione della “blackness” nel medesimo spazio filmico alternando i registri per dare uno sguardo d’insieme sfaccettato, il lungometraggio di Dia preferisce invece innestare in una narrazione lineare il racconto di una storia paradigmatica, stratificata e profonda, fatta di cambiamenti sociali e di errori dei padri che ricadono sui figli, di spose rapite e di funerali da celebrare ogni volta che un innocente rimane invischiato nelle faide “da adulti”. Una tragedia di amori sbagliati e fratelli nemici dal respiro più agro che dolce e per molti versi shakesperiano, in cui il protagonista è Tierno, un Imam di un piccolo villaggio senegalese in cui vigono varie tradizioni: il passaggio all’età adulta per i maschi è sancito da un “cambio di nome” che giunge «in gloria di Allah» dopo la rasatura dei capelli, e spesso le linee sanguigne sono mantenute “pure” con matrimoni combinati tra cugini. Tierno ha una malattia terminale che gli lascia pochi mesi di vita, ma continua la vita da sacerdote per il bene della famiglia e della comunità. All’inizio del film gli è rivelato, durante un matrimonio, che la figlia Nafi, una ragazza moderna che ambisce a una vita universitaria il più possibile lontana, a Dakar o forse in Europa, vuole sposare suo cugino, il figlio di Ousmane, fratello di Tierno vicino a sceicchi dell’ISIS con il quale l’Imam è in pessimi rapporti. Trasformando sin da subito una questione di famiglia in una questione politica e spirituale, perfetto punto di innesco con cui mettere a confronto le due facce della (non) stessa religione.
Il film sceglie da subito di mostrare Tierno come un personaggio a tutto tondo positivo, e la storia più che delineare un percorso per lui sceglie la strada di narrare gli accadimenti del villaggio dal suo punto di vista prevalentemente per dare voce al racconto del conflitto interno della piccola comunità, che diventa parabola di un modo di vedere il conflitto interno del’Islam di per sé, con l’aggiunta drammatica dell’affetto paterno. Se Tierno, nel suo piccolo, rappresenta la tradizione capace di reale progressismo, l’Islam “buono”, quello della stragrande maggioranza dei fedeli, Ousmane rappresenta invece la tradizione corrotta dalla radicalizzazione, in cui la ritualità è sostituita dal rigore, la Fede è sostituita dal terrorismo, le preghiere sono sostituite dalle armi, la dignità, fino ai fedeli più indegni e pericolosi smascherati, umiliati e cacciati dalla Moschea da Tierno, è sostituita dall’ipocrisia, e persino l’antico concetto di dote matrimoniale diventa un tentativo di acquisto e di corruzione. All’inizio, Tierno sembra voler proteggere Nafi dal matrimonio per una questione di affetto paterno possessivo, e nello spettatore (forse, soprattutto, a quello occidentale…) è inculcata l’idea di una possessività forse eccessiva, ma ben presto si viene a scoprire che per Nafi il matrimonio è una questione di convenienza economica, ed è appoggiata dal figlio di Ousmane, diviso tra la paura del radicalismo del padre e il raziocinio che lo porta invece, ma forse solo apparentemente, più vicino a Tierno. Fino all’arrivo dello sceicco, e all’inevitabile precipitare della situazione. Ma i terroristi non vengono messi in scena più di tanto: il vero antagonista è Ousmane, che progressivamente durante la storia si fa portavoce di un pensiero oltranzista, cercando di imporre sul villaggio una visione drasticamente tradizionalista delle cose fino a divenire maschera patetica e complessa dell’Islam più reazionario – basti pensare alla distruzione dei computer che con le loro troppe informazioni «portano sciocchezze». Vuole la città, vuole il controllo assoluto sul villaggio, già in possesso del potere economico vuole anche il potere politico del sindaco e quello religioso dell’Imam, conscio che il matrimonio con Nafi aprirebbe a suo figlio le porte per succedere, secondo disegno paterno con tutt’altre linee guida e tutt’altra idea della religione musulmana, a Tierno. Ma i lupi, si sa, prima o poi finiscono per sbranarsi da soli, fra di loro, lasciando a chi rimane solo le macchie del loro sangue.
Nel dire che Nafi’s father è un film sulla rappresentazione si intende non tanto che essa sia il nucleo, il quale invece è palesemente un discorso che si svolge su tre piani differenti (spirituale, sociale, intimo; essere Imam, essere senegalese, essere padre), quanto che a stupire di più in tutta l’operazione di Mamadou Dia sia proprio la gestione della messinscena. Per spiegarsi meglio: pur non essendo registicamente raffinato e immersivo come può essere un film americano dall’impostazione classica e grammaticamente corretta, Nafi’s Father ha un potere retorico convincente, una regia e un montaggio fluidi e credibili, una struttura narrativa avvincente, degli attori notevoli (in particolare Sy/Tierno, ma anche Saikou Lo/Ousmane) e una proposta di contenuto non banale che può essere illuminante per il pubblico occidentale (e pure se si vuole profondamente politica nel ragionare dall’interno sullo spauracchio dell’Islam radicale, entrando nel merito per demolire quella demonizzazione generalizzata della religione musulmana che con troppa superficialità avvicina il resto del mondo al razzismo) e facilmente identificabile per il pubblico del suo paese. Con tutti i pregi che può avere il miglior film indipendente americano a sfondo sociale, il che di certo, nelle difficoltà produttive del mai sufficientemente sostenuto cinema africano, non è poco. Il cinema autoriale del Senegal, che include ovviamente Ousmane Sembené di La Noire de…, ma anche i suoi contemporanei e/o collaboratori Mahama Johnson Traoré, Thierno Faty Sow e Djibril Diop Mambety, ha sempre lavorato sulla necessità dell’auto-rappresentazione, sulla narrazione etnografica, sull’esposizione dell’essere umano. Ma sono anche rievocate le intime necessità dell’artista in una società diversa e lontana da quella che, sino appunto a prima de La Noire de…, ha avuto modo di auto-rappresentarsi, di porre le fondamenta di un’iconografia o di un immaginario per il cinema. Nafi’s Father non è imprescindibile come alcuni dei film degli autori succitati, ma è senza dubbio un esordio autoriale sorprendente e un netto passo avanti per il cinema “mainstream” africano, che offre nuove possibilità al racconto sociale perché dà la dimostrazione che è possibile applicare in modo audace e sensato il modus operandi del cinema anglofono a cui più siamo abituati. Portando lo spettatore a un’esperienza di visione cristallina e, per quanto forse leggermente prolissa, significativa. L’impegno di Tierno per combattere l’ingiustizia è solo amplificato d’intensità dalla sua impellente malattia, che dà un segno di incombente destino alla sua intera visione della tradizione musulmana. Ma sembra che Dia e buona parte della popolazione senegalese, con questo film, possano emettere un grido di rifiuto altrettanto potente. Un grido di riscatto, di orgoglio, di dignità, di profondissima umanità.
Nicola Settis, Marco Romagna