«Questa storia è una replica dell’originale». Si apre così Museo, interessante lavoro a metà strada fra la commedia, il Colpo grosso e il road movie firmato dal regista messicano Alonso Ruizpalacios e presentato in prima mondiale nel concorso della 68ma Berlinale. Inizia con una dichiarazione programmatica, con una fondamentale chiave di lettura: quello a cui si sta per assistere non è l’esatta ricostruzione della realtà, ma è una finzione, è adattamento e rielaborazione, è una replica, proprio come quelle repliche che vennero installate nel Museo Nazionale di Antropologia e Storia di Città del Messico dopo il colossale furto che, nel 1985, aveva visto sparire durante la notte di Natale oltre 140 opere dal valore inestimabile, incalcolabile non tanto dal punto di vista economico quanto da quello storico, artistico e culturale. Quella notte a Città del Messico non sono stati rubati dalle teche semplici manufatti, ma è stata rubata la Storia di un Paese, la sua cultura, la sua appartenenza, forse il suo stesso senso di patria. Parte dalla Storia Ruizpalacios, quella con la S maiuscola, che ci racconta come le opere furono ritrovate qualche tempo dopo in casa di chi le aveva trafugate, ladro più per divertimento e autodeterminazione che per reale necessità, e ci innesta sopra un film che attraversa varie forme cinematografiche per raccontare, a costo di inventare di sana pianta, non solo il furto, ma tutto ciò che al furto avrebbe potuto girare intorno. Del resto, «perché rovinare una bella storia con la realtà?», quando la realtà è sempre e obbligatoriamente un qualcosa di relativo, un qualcosa che arriva dal passato e che non può prescindere dalle fonti e dalla loro ricostruzione, un qualcosa che rimane sospeso proprio come sospesi in un limbo rimarranno i protagonisti incapaci di piazzare la merce trafugata, e anzi destinati a perderla e a ritrovarla, a farne gli usi più disparati, a fallire, e infine a scegliere autonomamente di farsi arrestare, unica possibile via d’uscita, unico possibile atto di giustizia.
Ci sono Juan e Benjamin, i due improvvisati ladri, che cercano di capire come fidarsi l’uno dell’altro giocando al Guglielmo Tell con un cubo di Rubik. C’è il rapporto fra loro, con Benjamin voce fuori campo che per Juan prova da sempre una fascinazione per la quale si fa comandare a bacchetta a costo di abbandonare il padre nel momento del bisogno. Ci sono le rispettive famiglie che in un certo senso, con la loro invadenza e con le loro continue pretese, diventano il principale motivo del loro folle gesto di ribellione. E poi c’è il loro viaggio fino ad Acapulco, avanti e indietro, in tondo, alla vana ricerca di un ricettatore disposto a sobbarcarsi il rischio di acquistare merce invendibile.
Non è certo un caso che a dare corpo a Juan sia Gael Garcia Bernal, forse la più nota stella cinematografica centro-sudamericana, l’«attore famoso» al quale i poliziotti del posto di blocco, senza aver riconosciuto i manufatti trafugati, chiederanno un autografo: Museo non vuole raccontare “il vero”, ma vuole sfruttare una pagina di Storia per riflettere sull’antropologia di uno Stato, sul senso di patria, sull’identità, sul tempo fugace e forse bugiardo che si annulla e diventa polvere su una teca, e non certo in ultimo sul cinema, ovvero sull’esposizione degli oggetti/corpi che i ladri/attori nella realtà/finzione tengono finalmente in mano. Ogni Museo, del resto, è di per sé un luogo di sospensione storica, in cui l’antico tende al futuro, in cui è custodita, negli oggetti di un tempo, l’appartenenza di un intero popolo. Ancor di più, se possibile, in quel Messico di manufatti precolombiani, maya e aztechi, Storia di popolazioni in sostanza cancellate dai colonizzatori europei.
Eppure, in un certo senso, anche la stessa esibizione museale del vero è una finzione, è una messinscena, è una scelta atta a ricostruire una Storia che non si può sapere, in mancanza di testimoni, di quanto si avvicini alla verità. La coppia di rapinatori parte da Satelite, vera e propria città satellite a 23km da Mexico City, e proprio come un satellite saranno costretti a un costante girare intorno allo stesso punto che non li porterà da nessuna parte. Compiono il furto per dimostrare di valere qualcosa, rubano la Storia per entrare nella Storia, ma pur riuscendo nell’elaborato piano di reazioni chimiche e fili di rame direttamente nelle prese di corrente si renderanno conto di non valere nulla, di non essere nemmeno consapevoli della reale gravità del loro gesto, di non essere nemmeno consapevoli del reale valore della cultura Maya che si trova nella loro borsa destinata a essere più volte persa e ritrovata. Gli oggetti più preziosi della civiltà precolombiana vengono utilizzati per bere, per pippare cocaina e per giocare con la sabbia, come se fossero bicchieri, secchielli e palette, come se fossero pezzi di plastica senza storia e senza cultura, come se l’unico punto di partenza potesse essere l’ignoranza di chi al Museo è evidentemente stato troppo poco ben al di là della sua appartenenza altoborghese e delle sue citazioni di Castaneda, mentre già nei suoi corridoi, durante la fuga con il bottino, iniziano le visioni degli antichi come in un cortocircuito storico, e a casa l’eterno studente Juan si ritroverà nottetempo di fronte a una versione fantasmatica e muta del suo severo ed esigente padre anticipazione di quel ribaltamento in cui toccherà proprio al padre, interpretato da un (come sempre) magnifico Alfredo Castro, non poter sentire le parole del figlio quando, dopo le sue lunghe e infruttuose peregrinazioni, rientrerà finalmente nel Museo per restituire il maltolto.
Alonso Ruizpalacio, all’interno della sua messa in scena, sperimenta generi e linguaggi, fotografando in un curato 35mm un film letteralmente folgorante nella sua prima sezione fatta del vuoto intorno ai protagonisti, con tanto di Juan che, per il semplice gusto di farlo, finirà per svelare a tutti i bambini di famiglia l’inesistenza di Babbo Natale e a far trovare loro i regali prima del tempo in uno spassoso capitolo da perfetta commedia degli equivoci. E poi c’è il dramma storico, c’è l’adrenalina del colpo, c’è il road movie di chi girerà inutilmente mezzo Messico per scoprire quanto quel padre che si voleva zittire avesse ragione nel considerare il figlio inconcludente e inetto, e poi c’è lo scoramento di Benjamin che perde il padre senza potergli stare a fianco nel momento del trapasso. C’è il viaggio, ci sono le piramidi Maya, ci sono i peggio locali di puttane e rimpianti, ci sono i trafficanti di opere d’arte «inglesi che manco parlano spagnolo e faranno finire le opere al British Museum», e con loro ci sono il rifiuto di ricettare una merce ormai troppo esposta e le prime crisi di coscienza di Juan, che inizia a rendersi conto della gravità simbolica, ancor più che economica, del suo atto criminale. Il bottino vale un milione di dollari, poi mezzo milione, poi nulla, invendibile, mentre è alta la ricompensa per ritrovare ciò che è inestimabile: si arriva al paradosso nel quale il furto non serve a nulla, la ricompensa vale più della refurtiva, tutto diventa inutile, e allora tanto vale tornare a casa, confessare la propria colpa, prendersi quegli schiaffi che si sa perfettamente di meritare, cercare in qualche modo di metterci una pezza.
Ci sono i pianisequenza con la macchina a mano nelle fasi più concitate, ci sono eleganti e quasi impercettibili carrellate quando invece la parola o la tensione sostituiscono l’azione, ci sono i dettagli delle opere e degli uomini che le trasportano in borsa, ci sono i titoli di testa che sembrano quasi estrapolati da uno 007, e poi c’è Riders on the storm, leit-motiv firmato Doors che, come ad aprire le porte non più della percezione ma della mera consapevolezza, ritorna più volte nello scorrere di un film sorprendente, inaspettato, profondamente stratificato e intelligente. Certo, nelle due ore abbondanti di Museo si può trovare anche qualche momento di stanca, così come si può notare un leggero abbassamento qualitativo e ritmico nella seconda parte dopo un incipit folgorante, acuto quanto spassoso, fortemente legato a un Paese e alla sua antropologia. Ma sarebbe profondamente sbagliato, prima ancora che ingeneroso, impuntarsi su limiti veniali senza concentrarsi invece su come il film sia in grado di riflettere sulla Storia e su chi la fa. L’opera seconda di Ruizpalacios è un continuo e sapido interrogarsi sugli errori umani, sul senso di responsabilità, sull’inconcludenza, sull’errore. È un continuo riflettere sul tempo, sulla ribellione, sul senso stesso dell’esistenza – degli uomini, delle opere, dei musei che le ospitano –, e non certo in ultimo sulla finzione e sulla realtà, sui personaggi, sulle soluzioni di messa in scena, sulla stessa natura del cinema che intrappola le immagini proprio come le teche intrappolano gli oggetti, e che con la stessa facilità può mentire, essere scassinato, balzare agli onori e agli oneri della cronaca. Entrare nella Storia, forse. O forse no.
Marco Romagna