UN’ALTRA VITA – MUG (2018), di Małgorzata Szumowska
“I still believe in your eyes
I just don’t care what you’ve done in your life
Baby, I’ll always be here by your side
Don’t leave me waiting too long, please come by
I still believe in your eyes
There is no choice, I belong to your life
Because I will live to love you someday
You’ll be my baby and we’ll fly away
And I’ll fly with you
I’ll fly with you
I’ll fly with youEvery day and every night
I always dream that you are by my side
Oh baby, every day and every night
Well, I said everything’s gonna be alright
And I’ll fly with you
I’ll fly with you
I’ll fly with you“
Gigi D’Agostino, L’Amour Toujours
Paese strano, la Polonia di oggi. Un Paese smarrito, contraddittorio, che vive di apparenze, che non sa più quali siano i propri valori. Un Paese che sta cambiando faccia e che non riesce più a stabilire le proprie priorità, che quotidianamente si perde nella costante ricerca di un’identità, che quotidianamente mastica e sputa il caso di turno con i suoi media e poi, appena passata l’ondata della notizia, puntualmente lo abbandona, lo dimentica, volge lo sguardo se non addirittura la testa dall’altra parte. Proprio come una statua nata sbagliata e poi pietosamente modificata in corso d’opera, la Polonia è un Paese moderno quanto arretrato, consumista quanto bloccato nel suo senso del sacro che fu (ed è) pedissequo e reazionario ribaltamento post-comunista. È un Paese in cui le persone che sono disposte, in un incipit metaforico fin troppo chiaro, a rimanere letteralmente in mutande dentro a un grande magazzino per potersi accaparrare l’ultimo oggetto tecnologico in saldo sono le stesse che fanno a gara con Rio De Janeiro per la statua di Cristo Re più alta del mondo, sono le stesse che apostrofano come satanista chi ascolta il metal, e sono le stesse che quando il protagonista Jacek, devastato dall’incidente, diventerà un mostro, non si faranno alcun tipo di scrupolo a chiamarlo Mug, “musone”, “brutta faccia”, ad averne paura, a lasciarlo, a isolarlo, e magari a chiamare un esorcista.
Sia ben chiaro, non sono certo pochi i difetti di Mug, nuovo lavoro della (mediocre) regista polacca Małgorzata Szumowska presentato, come d’abitudine, in concorso a Berlino, e in uscita in Italia con il titolo Un’altra vita. È un film troppo programmatico nella costruzione della sua parabola, troppo bloccato sulla tesi che vuole portare avanti, un po’ troppo facile nei suoi – pur condivisibili, e di certo non frequenti in un cinema spesso ultracattolico come quello polacco – attacchi al clero, ai media, al consumismo, a una società che fa sacrifici per finanziare la costruzione di un simulacro religioso ma che non muove un dito quando un suo concittadino avrebbe bisogno di solidarietà per potersi permettere le cure, e anzi lo invita con decisione inappellabile a trovarsi un lavoro part-time nonostante non possa muovere i muscoli facciali e fatichi ad articolare le parole. Un’altra vita – Mug è un film troppo schematico, spesso forzato nella costruzione della trama e nei dialoghi tutti tesi a vertere in sostanza sullo stesso punto con tanto di insopportabile sacerdote confessore/estorsore, troppo ripetitivo nelle continue giustapposizioni quasi speculari fra società e chiesa oppure fra i due volti del protagonista, e soprattutto è un film stilisticamente discutibile, con una continua ricerca di effetto tramite sfocature appiccicate in postproduzione che, più che un diaframma alla massima apertura, e quindi lo smarrimento umano, finiscono per ricordare la mera estetica dei filtri di Instagram, e quindi una scelta arbitraria nell’indirizzare l’attenzione di chi guarda. Eppure, a differenza di quanto accaduto con le opere passate della Szumowska, questa volta viene quasi naturale ritrovarsi a difendere un film profondamente umano, onesto, spontaneo, nel quale fra una caduta e una forzatura finiscono per emergere dallo sguardo appannato e dalla malinconica solitudine anche inaspettati istanti di poesia. È probabilmente il registro scelto, il grottesco di una comicità nera e profondamente amara, a stemperare i toni, a virare in un umorismo sornione e un po’ acido, a tratti patetico ma a tratti irresistibile, quelle tematiche di identità, corporalità e morale sulle quali da sempre si interroga l’autrice polacca, ed è il brano musicale più inaspettato, L’amour toujours di Gigi D’Agostino, a catalizzare l’intera sfera onirica del film, le emozioni del protagonista, i suoi sogni e le sue (dis)illusioni, prima nella sua versione dance originale e poi in un vorticare di violini, sogno, forse miracolo, e poi definitivo rimpianto. Ma andiamo per ordine.
Prima di tutto c’è “il primo” Jacek, con i suoi capelli lunghi per i quali in paese spesso viene chiamato Gesù, con i suoi tatuaggi e con la sua innata ironia provocatoria che lo porta a girare per il paese facendo le corna dalla sua vecchia e scassata automobile in quelle che sono vere e proprie scorribande sonore al massimo del volume. Operaio, lavora come tanti altri alla costruzione del colossale Cristo Re alto 36 metri realmente inaugurato a Świebodzin nel 2010, e proprio mentre si adopera per trasformare il blocco di marmo in una testa, quella testa che dimensioni a parte così tanto gli somiglia, finirà per cadere dall’impalcatura, venendo salvato per miracolo e costretto al primo trapianto di volto della storia della Polonia. Un trapianto per il quale Jacek non potrà mai più tornare come prima, costretto a una vita da sfregiato, costretto a un occhio semichiuso, costretto a non sentirsi la faccia per via delle terminazioni nervose perdute per sempre, costretto a non riconoscersi quando si guarda, costretto a costose cure, e soprattutto costretto a vedere la (non più) sua bella Dagmara, ultima a giungere in ospedale, passare dall’amore al ribrezzo, dalla promessa di matrimonio con tanto di appassionati baci sul ponte alla macchia di chi si fa negare, all’abbandono, alle braccia altrui, che siano aitanti pretendenti che la riaccompagnano a casa o giovani frequentatori della discoteca ben felici dei suoi eccessi esibizionistici. Per la storia d’amore di Jacek rimarrà solo lo spazio dell’illusione, l’impossibile ritorno di quelli che percepisce come suo vero volto e del suo vero aspetto, l’impossibile ritorno alla normalità e alla felicità: rimarranno solo i violini di Gigi D’Agostino, «I’ll fly with you», destinati a interrompersi così come si infrange uno specchio nel lacrimato frastornamento di chi si risveglia e si rende conto di avere solo sognato ciò che non potrà mai più essere.
Małgorzata Szumowska riesce forse per la prima volta in carriera a far coincidere il proprio sguardo con quello del protagonista che mette in scena, portando il pubblico a ridere con lui, a soffrire con lui, a sdrammatizzare con lui, a sopravvivere con lui. Si concentra sulla sua mercificazione mediatica, sul trasformarlo in eroe temporaneo, a scadenza, da masticare e risputare non appena finirà di essere “notizia”, per poi abbandonarlo di nuovo solo al proprio destino, alla propria solitudine, alla propria (im)possibile identità – un volto che non è il suo, una voce che non è la sua, ma ancora la sua musica, la sua chitarra immaginaria, oppure le bacchette con le quali suonare fino a sfondarla una batteria che non c’è. Del resto, praticamente tutti lasciano Jacek, lo deridono, lo temono in quanto “diverso”, in quanto “mostro”. Solo la sorella gli saprà rimanere accanto e saprà realmente combattere insieme a lui, mentre in paese e in casa le reazioni sono le più disparate, ma sempre tese ad allontanare e mai ad accogliere. I nipoti si ritroveranno ad avere paura dello zio, i concittadini gli rifiuteranno qualsiasi tipo di aiuto e lo ribattezzeranno Mug, persino la madre, preoccupata dal volto inespressivo con il quale vede il figlio “cambiato”, finirà per chiamare un esorcista. E proprio nella sequenza dell’esorcismo, in un certo senso, sta tutto il cuore del film. Da una parte i riti cristiani, l’invito a «uscire dal corpo», l’invito a palesarsi e liberare l’uomo, e dall’altra Jacek tenuto fermo su una poltrona, pronto a dimenarsi e a tirare fuori dal suo corpo la voce più cavernosa e infernale possibile, salvo poi alzarsi in piedi e, guardando scoraggiato gli astanti, rivelare nella maniera più normale e pacata possibile di averli semplicemente perculati: «Ma siete tutti matti?». È l’umorismo, forse, l’unica possibile ancora di salvezza, l’unica possibile via d’uscita dai dubbi esistenziali nei quali chi si ritrova in una fisicità non più sua, circondato da sospetto, freddezza e ipocrisia, non può che piombare. La mutazione della carne però, evidentemente, non ha mutato l’anima del vecchio metallaro, inguaribile cazzaro di paese, che proprio nella sua ironia, nella sua capacità di ridere, nel suo cinismo a fin di bene, ritrova in qualche modo la propria identità, la propria personalità, il proprio modo di essere. Anche nelle piccole risse, anche nell’atteggiarsi a orco per spaventare quei bambini che lo deridono perché lo temono, anche nel tornare l’adorabile attaccabrighe che era sempre stato. Forse la società, quella stessa società in cui anche il Cristo Re è costretto dalle autorità religiose a girare la testa dall’altra parte, non sarà mai in grado di capirlo e di aiutarlo, ma “Mug” è finalmente consapevole di essere ancora/di nuovo Jacek, con i suoi turbamenti, con i suoi dolori, ma anche e soprattutto con la sua indole, con il suo temperamento, con la sua sagace ironia, con la sua brillantezza in un sapido provocare chi si trincera dietro la morale per perdere ogni tipo di morale. Non è un “bel” film, Un’altra vita – Mug, non lo è assolutamente. Ma questa volta, nel suo ostinato remare insieme al protagonista, nel suo ostinato porsi dalla sua parte, Małgorzata Szumowska raggiunge una partecipazione inedita, una profonda umanità, un’assoluta onestà di sguardo. Il che, specialmente se visto pochissimi giorni dopo l’inaccettabile e gratuita cattiveria di Philip Gröning o dopo la pretenziosità totalmente ingiustificata di Adina Pintilie, non è di certo pochissimo.
Marco Romagna